Antigone: Tu ora puoi mostrare se il tuo animo è nobile davvero oppure indegno della tua nobile stirpe.
Ismene: Ma se le cose stanno così, mia infelice sorella, che cosa posso io fare o non fareI
Antigone: Puoi dividere con me il peso dell’azione…
Ismene: Quale azione? A che pensi?
Antigone: …e aiutarmi a sollevare il corpo…
Ismene: Vuoi seppellirlo? Anche se è proibito?
Antigone: È mio fratello, è anche tuo fratello. Se tu ti opponi, non sarò io a tradirlo.
Ismene: Ma Creonte lo vieta, disgraziata!
Antigone: Lui non può separarmi dalle persone che amo.
(Sofocle, Antigone, versi 37-48, traduzione di Maria Grazia Ciani in Antigone, Variazioni sul mito, Marsilio 2000)
Così Antigone va. Seppellisce il cadavere del fratello Polinice, contravvenendo agli ordini di Creonte, suo re e suo zio. Polinice aveva marciato contro la propria città, si era scontrato in duello con il fratello Eteocle, erano morti entrambi. Ma il corpo di Polinice viene lasciato in pasto ad avvoltoi e cani.
Seppellire i nostri cari
Seppellire i nostri cari. Molti avranno pensato ad Antigone nel guardare il video agghiacciante delle bare in fila nella chiesa di Bergamo, o la foto del convoglio militare in attesa di portarle via dalla città perché Bergamo non ce la fa più. O ancora nel leggere di chi ha visto i propri cari entrare in ospedale e non ne ha più saputo nulla per giorni, fino alla notizia del decesso. Notizia e nulla più.
Aveva davvero ragione Antigone? Così dicono molte riscritture moderne. Dai paradossi di Jean Anouilh (1942) alla radicalizzazione di Bertolt Brecht (1947) fino alla recente, partecipata versione di Valeria Parrella (2012), la figura di Antigone si erge solenne contro il tiranno Creonte, colpevole di autorità disumana. La modernità ha eletto Antigone a simbolo di ogni ribellione contro dittature, assolutismi, discriminazioni di razza, classe, religione. Antigone paladina di tutti gli oppressi che si levano a reclamare giustizia.
Perché è vero, Creonte aveva imposto un divieto di sepoltura insensato: non già solo in patria, ma ovunque in terra. Una barbarie. Proviamo però, per un attimo, a metterci nei suoi panni. Creonte sapeva bene che le tombe dei nemici sono un pericolo per la comunità perché rischiano di diventare potenti simboli. Da buon governante, dunque, ha emanato quel decreto estremo, che colpiva addirittura un membro della sua famiglia, perché ha pensato al bene dell’intera comunità. Allo stesso modo noi, oggi, guardiamo quelle bare solitarie e ci si strazia il cuore, ma capiamo che è giusto così, per il bene di tutti. Fatichiamo ad accettarlo ma proviamo a capire, facendoci forza.
Un dilemma irrisolto
Ma Antigone allora? Eh sì, nella tragedia lei muore ma non trionfa. Dallo scontro escono sconfitti entrambi, sia lei che Creonte. Lei, sepolta viva, muore suicida rinunciando alfine a combattere. Lui vede la sua famiglia distrutta, un suicidio dopo l’altro: il figlio Emone innamorato di Antigone, la moglie Euridice. Grida: “Portatemi via, portatemi lontano. Io non esisto più, io non sono più nulla” (vv. 1324-25). Così Sofocle lascia il dilemma irrisolto: è più giusto trasgredire le leggi dello stato mettendo a rischio il suo equilibrio, o ignorare le leggi non scritte offendendo la pietas umana?
Questo nodo insolubile mi ha letteralmente travolta quando, adolescente, ho letto la tragedia per la prima volta. Era il Settantasette e la leggevo tra una manifestazione e un’occupazione del liceo, sognando di studiare giurisprudenza all’università perché solo con le leggi si può cambiare il mondo. Antigone è stata la molla che mi ha fatto cambiare idea e alla fine ho studiato il greco antico. Perché i greci hanno detto tutto di noi, hanno indagato ogni piega più intima dell’animo umano. In loro trovavo risposte e soprattutto tante domande importanti.
Come tutti, parteggiavo e ho sempre parteggiato per Antigone, per il suo eroismo, il suo coraggio. Ma nella mia testa dominava quel dubbio. Col passare degli anni, poi, mi accorgevo che non solo le leggi umane sono imperfette, ma che la loro applicazione è ancora più imperfetta. Accumulavo così ragioni che mi avvicinavano ad Antigone. Ma il dubbio rimaneva, indelebile.
Allontanare i propri fantasmi
Poi un giorno, quasi per caso, ho messo le informazioni in fila, e per la prima volta ho dato un senso al tutto. I greci difendevano le loro leggi con le unghie e con i denti, pena la dissoluzione delle loro città. Nelle tragedie – luogo eletto di formazione delle coscienze – esorcizzavano tutto quel che rischiava di minare le leggi. Si sono sforzati di passare in rassegna tutto, ma proprio tutto quel che avrebbe potuto mettere in discussione la loro creazione sociale e politica. Mettendolo in scena, facevano sì che i cittadini lo conoscessero da vicino per poi liberarsene, lasciandolo fuori dalla città. Ci sono riusciti fino a un certo punto, come ben sappiamo. Non ci si può liberare del tutto dei propri fantasmi.
Il fantasma principale era la tirannide che nella loro storia avevano conosciuto. Creonte dunque non rappresenta le leggi della città ma il loro uso unilaterale e arbitrario. È colui che non sa ascoltare né dialogare, convinto di essere nel giusto. Mentre la città democratica si regge sul dibattito, sull’ascolto dell’altro al fine di prendere decisioni collegiali.
Ma neppure Antigone ha ragione. Le sue sono le ragioni della famiglia, anzi del clan famigliare, prima che della pietas umana. Vuole seppellire il proprio fratello, non una persona qualsiasi. Afferma che non sarebbe così determinata se si trattasse di un marito o di un figlio. Ma il fratello, cioè la propria famiglia di origine, deve avere sepoltura. Con aristocratica supponenza, sottolinea persino più volte la sua nobile stirpe.
Così anche Antigone impersona un fantasma della polis greca: le arcaiche regole dei clan che la democrazia si vantava di aver superato. E anche lei è intransigente, non vuole sentire ragioni. “Il tuo innato orgoglio ti ha perduta” (v. 875) le dice il Coro. L’intransigenza è l’errore fatidico per entrambi.
Dunque hanno torto tutti e due, Antigone e Creonte, come sostiene la filosofa Martha Nussbaum (La fragilità del bene 1986, trad. it. Il Mulino 2004) e ha osservato in più occasioni anche il giurista Gustavo Zagrebelsky. E per Sofocle, cittadino della polis, la verità sta nel mezzo. O meglio, sta sì nelle leggi, ma in leggi generate da un dibattito politico.
Antigone, la donna
Finalmente ho messo ordine nei miei pensieri. E finalmente, da allora, sono riuscita a guardare Antigone con occhi nuovi. L’ho liberata di tutte le responsabilità di cui era investita come paladina delle ragioni del singolo verso le regole sociali, dei valori immutabili contro le leggi umane, delle necessità della morte di fronte alle volontà dei vivi, dell’irruenza dei giovani opposta alla ponderazione degli adulti.
Finalmente, ai miei occhi, Antigone è apparsa come donna. Solo donna e null’altro. Una grande donna che ha avuto la forza di sfidare non già pregiudizi o consuetudini familiari o sociali, ma le leggi stesse della città. Leggi maschili, fatte dagli uomini per proprio uso e vantaggio. Antigone ha osato mettere in discussione il potere degli uomini, ha minato l’essenza della polis greca. E ha osato parlare in pubblico, quando anche la parola è cosa da uomini.
Come non ricordare l’episodio emblematico di Telemaco che, nell’Odissea, intima alla madre Penelope di tacere e ritirarsi nelle proprie stanze, perché “la parola spetta agli uomini”? Ma anche in Sofocle la stessa Ismene, sorella di Antigone, le dice: “siamo donne, ricordalo, non possiamo batterci con gli uomini; chi ci governa è più forte e noi dobbiamo piegarci a quest’ordine e ad altri, ancor più penosi (…) Agire contro i propri limiti, è follia” (vv. 61-64 e 68). Ismene è le donne di Grecia, e le tante donne che, da che mondo è mondo, hanno sempre accettato il ruolo che veniva loro imposto. Hanno sofferto, convinte dell’ineludibilità della loro sofferenza.
Molti si sono chiesti perché le tragedie greche siano popolate da donne forti e potenti, quando al contrario la donna greca doveva stare in casa e tacere. Clitennestra, Elettra, Ecuba, Medea e le altre: le donne della tragedia greca paiono irreali. Forse perché, per la società maschilista greca, le donne erano comunque l’altro, il diverso, come ha spiegato bene la storica Sarah Pomeroy (Donne in Atene e Roma 1975, trad. it. Einaudi 1978). Erano l’ignoto, temibile proprio perché tale. Erano tra i fantasmi della città da tenere a bada, assieme a quei vincoli famigliari che per una donna rappresentavano l’interesse principale. E dovevano essere grandi perché l’avversario è sempre grande e potente: più lui è grande, e più la tua vittoria lo è.
Parola e potere
Tra queste donne, finalmente l’ho capito, Antigone spicca, non solo grande ma immensa. Perché si erge a parlare in pubblico contro il potere maschile, a nome di tutte le donne del mondo che non hanno mai osato parlare. Non a caso Sofocle usa spesso il maschile riferendosi a lei, e nel magistrale scontro con Creonte – dove lei spavalda si attribuisce il merito della sepoltura del fratello – fa dire al tiranno “l’uomo sarà lei” (v. 484). Per lui e per Sofocle, Antigone, una donna che parla, non può che parlare ‘da uomo’.
Oggi, duemilacinquecento anni dopo Sofocle, e dopo le molte battaglie per affermare i diritti delle donne, sono ancora troppo poche le donne di potere, le donne che parlano in pubblico. E lo fanno ancora troppo ‘da uomo’, perché potere e parola sono ancora prerogativa degli uomini (Mary Beard in Donne e potere 2017, trad. it. Mondadori 2018).
Senza potere condiviso non ci sarà mai parità vera. Senza narrazioni condivise non ci sarà parità. Oggi, duemilacinquecento anni dopo Sofocle, che Antigone sia il vero faro di tutte le donne del mondo.
Un’Antigone, però, meno intransigente ma aperta all’ascolto e al rispetto dell’altro. Persino a comprendere le ragioni di Creonte, se vogliono il bene della comunità, se sono necessarie. Oggi purtroppo lo sono. Oggi più che mai. Ai nostri cari che oggi non possiamo neppure vedere, renderemo gli onori funebri come si conviene. Ci uniremo tutti nel loro ricordo. Ora no, non è il tempo. Ma sappiamo che il tempo verrà.
Questo articolo è SUBLIME!
Mai ho trovato concentrati in un articolo tali e tante riflessioni sulla “differenza di genere”. “Differenza di genere” è un’espressione che non mi piace ma, poiché è generalmente usata e condivisa, la uso.
Tanto da dire… per ora diffondo l’articolo e ne aspetto altri.
Mi sento come un’assetata che beve acqua fresca e cristallina,
Caspita, grazie mille! Sono commossa.
Qui su Archeostorie troverà in futuro altre mie riflessioni. A questo punto mi auguro che siano all’altezza delle sue aspettative.
Ancora grazie. Cinzia
Grande!!!! L’articolo e le sue riflessioni. Tanti anni fa, parlando con una critica d’arte che spero si riconosca, dissi timidamente , riferita ad una riflessione su un discorso alquanto maschilista: …”ma le emozioni i sentimenti sono importanti e non dovrebbero appartenere solo al genere femminile…” . La risposta fu : “nella storia le emozioni hanno creato solo disastri,,” può essere vero, ma da quel giorno mi chiedo….”allora cosa dobbiamo fare? Calpestare i sentimenti e annullare le emozioni? O farli prevalere sapendone gestire le conseguenze? Cosa dobbiamo essere? Esseri umani o robot? Purtroppo oggi, quando i problemi sono più grandi di noi, non possiamo permetterci facili sentimentalismi da donna, o facili accuse da inconsapevoli. Dobbiamo solo fidarci. La fiducia va ancora concessa al mondo maschilista.
Penso che non sia combattendolo, andando contro, che si possa raggiungere una parità, ma da alleate e fiduciose affiancare l’uomo, sostenendolo o combattendo lealmente per renderlo più consapevole.
Quando dite che Antigone è’ per il fratello che si batte. Forse non l’avrebbe fatto per un figlio un marito. Mi fa pensare che c’ è in questa ribellione alla legge imposta, una centralità dell’ Ego. E questo atteggiamento non è mai “puro”, ma mediato da un’ inconscia volontà di potere che porta alla ribellione e va oltre la morale.
Quindi in parole semplici, o non si dà fiducia a nessuno o a tutti, uomini o donne che siano.
Blondel dice : “l’azione è la più alta manifestazione dello spirito” e quindi non le parole da cui oggi siamo sommersi. Le parole non contano quando si agisce solo per se stessi.
Mi scuso con la d.ssa Dal Maso per la conclusione perentoria. La ringrazio per i suoi scritti che trovo molto interessanti e profondi. Non vorrei essere fraintesa…..il mio voleva solo essere un pensiero libero…..
Buongiorno Liliana, non si deve scusare affatto. Noi scriviamo per stimolare riflessioni e discussioni e dunque ben vengano!
Se c’è una cosa in cui non concordo col suo scritto, è che pare emergere un’idea secondo la quale le emozioni sarebbero tipicamente femminili e la razionalità maschile. Io credo che siamo tutti esseri umani con un cervello e un cuore, tutti noi abbiamo pensieri e sentimenti. Se generalmente, negli uomini o nelle donne, vi è un prevalere dell’uno sull’altro, è per un fattore culturale e non di certo biologico. Una cultura che abbiamo assimilato nel profondo, ma di cui ci possiamo liberare, e ci dobbiamo liberare se vogliamo che vi sia un dì una parità vera tra uomini e donne.
Un caro saluto.
Cinzia