A Gerusalemme sta nascendo un museo grandioso diviso in tre sezioni e dislocato su due sedi: è il Terra Sancta Museum, al tempo stesso museo archeologico, musealizzazione di un’area archeologica, e museo storico che narra gli ottocento anni di presenza francescana in Terrasanta. Era infatti il 1217 quando nacque la Custodia di Terrasanta, per custodire i luoghi dove Gesù ha vissuto; ed era il 1219 quando Francesco stesso vi si recò al seguito della quinta crociata, incontrando anche il sultano al-Malik al-Kamil: un esempio di dialogo interreligioso e interculturale che è stata ed è tuttora la vera missione della Custodia. Una missione, oggi più che mai, imprescindibile per tutti noi.
Terra Sancta Museum: che cos’è
In tanti anni i Francescani hanno raccolto un’infinità di oggetti: sculture, dipinti, codici miniati, paramenti sacri, armature, i tantissimi vasi dell’antica farmacia che per secoli fu la migliore di tutto il Medio Oriente. Possiedono anche oggetti antichi, frutto di donazioni e di scavi archeologici eseguiti in prima persona da francescani dall’Ottocento a oggi, volti a indagare la storia dei luoghi sacri dall’antichità fino ai tempi delle crociate. Fino a ieri tutto ciò era riunito in poche stanze nel Convento della Flagellazione nella Città Vecchia: stanze oggi inadeguate sia agli oggetti custoditi che alla rilevanza dei loro custodi. Così, anche in concomitanza dell’importante anniversario, è stata avviata la grande impresa: trasferire la collezione storica, e quindi il racconto della lunga storia della Custodia, nel Convento di San Salvatore dove la Custodia stessa ha sede, e riservare tutto il Convento della Flagellazione alla collezione archeologica e dunque alla narrazione del Cristianesimo delle origini.
La Flagellazione è il luogo perfetto: proprio lì infatti, secondo la tradizione, c’erano un tempo la Fortezza Antonia e il Pretorio dove Pilato condannò Gesù. Ed è la prima stazione della Via Dolorosa che tutti i pellegrini percorrono fino alla Chiesa del Santo Sepolcro. Così si è pensato che fosse prioritario raccontare il luogo e la sua importanza, e spiegare in breve ai pellegrini – tra capitelli e rilievi antichi rinvenuti proprio lì – la storia della città di Gerusalemme e le radici storiche delle stazioni della Via. Ne è nata un’installazione multimediale, primo tassello del grande Museo, aperta al pubblico nel marzo 2016. E da giugno prossimo si aprirà anche un’area molto suggestiva del convento, dove scavi recenti hanno messo in luce vari edifici mamelucchi e crociati. Per tutto il resto invece, cioè l’esposizione delle collezioni storiche e archeologiche nelle due sedi, si dovrà ancora attendere.
Fare un museo
Giorni fa, nella sede ministeriale del San Michele, ospiti di Elena Calandra direttrice dell’Istituto centrale per l’archeologia, alcuni protagonisti di questa avventura museografica, ora diretta da padre Eugenio Alliata, hanno raccontato ciascuno la propria storia. Dalle loro parole si è capito che, pur essendo ottimi specialisti, nessuno di loro si era distinto particolarmente in ciò che era chiamato a fare. Però erano proprio le persone giuste. Le persone che, anche quel giorno al San Michele, hanno incantato tutto l’uditorio, avvolgendolo in contemplativo silenzio. E creando nella sala un’atmosfera pacata di incanto e serenità.
A cominciare da Carla Benelli, storica dell’arte che per lunghi anni ha collaborato con padre Michele Piccirillo, grande archeologo e uomo di grandi intuizioni, e oggi presenza costante nel ricordo di tutti. E poi Fulvia Ciliberto, archeologa classica che non era di certo un catalogatore di lungo corso, quando nel 2009 fu chiamata a Gerusalemme. Eppure cominciò pacatamente a studiare il modo migliore di catalogare e ordinare l’immenso patrimonio archeologico francescano, e a oggi lei e i suoi allievi hanno schedato 11.250 reperti. Però indagando, si sa, sorgono dubbi, curiosità, si scoprono oggetti inediti o studiati solo tantissimo tempo fa, e così la catalogazione è diventata una miniera di ricerche che non avrà forse mai fine.
Molte opere, poi, avevano bisogno di restauro, e così la palla passa all’architetto Osama Hamdan, anche lui collaboratore di padre Piccirillo e direttore del Mosaic Centre di Gerico, scuola di mosaico voluta da Piccirillo stesso per formare esperti palestinesi che avessero a cuore il loro patrimonio. Hamdan parla dei restauri, degli allievi sempre più numerosi, anche se mai sufficienti per le necessità di un patrimonio archeologico palestinese troppo trascurato. Ma parla anche delle sue iniziative per coinvolgere la popolazione tutta. Coi suoi ragazzi, ha restaurato mosaici anche al Getsemani e al Dominus Flevit al Monte degli Olivi, e gli pareva assurdo che proprio gli abitanti dei dintorni non avessero mai messo piede in luoghi visitati ogni giorno da pellegrini e turisti di tutto il mondo. Ed ecco che Hamdan li porta tutti dentro, in visita, a fare laboratori, a giocare. Per diventare un giorno loro stessi i custodi più assidui. “Bisogna investire nelle persone”, ricorda.
È quindi il turno del museografo Gabriele Allevi, già direttore del Museo diocesano di Bergamo, che fu chiamato a Gerusalemme da padre Pierbattista Pizzaballa quand’era Custode di Terra Santa. Insomma bergamasco chiama bergamasco. Entrambi più che in gamba, però. Allevi ha ideato un museo multimediale senza averne mai avuto esperienza prima. Semplicemente perché si è posto il problema di dover narrare storie complesse a genti provenienti da ogni angolo del globo, e con i background culturali più diversi. La scelta era obbligata: poche parole, chiare e mirate, e tante immagini parlanti e immersive. Allevi ricorda la definizione di Icom (International Council of Museums) che parla del museo come ‘servizio’: a Gerusalemme è più che mai servizio per il dialogo tra le genti, attraverso la conoscenza.
Ecco perché le persone che hanno parlato l’altro giorno al San Michele, ciascuna nel proprio settore, sono proprio quelle giuste. Tutti hanno saputo rimboccarsi le maniche con umiltà. Hanno saputo collaborare, con tutti e alla pari: c’era armonia nelle parole che rimbalzavano dall’uno all’altro. Hanno voluto crederci, nonostante i ritmi rallentati e le continue difficoltà. Questo serviva per il Terra Sancta Museum, non altro. Serviva, innanzitutto, crederci.
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