Le frecce sibilano nell’aria, si conficcano nel terreno, rimbalzano sui sassi. Si leva qualche urlo subito soffocato. L’attacco è giunto così improvviso che le vittime hanno potuto solo alzare lo sguardo verso la morte che calava dall’alto.
L’ultimo rimasto si guarda intorno, frastornato. Non ha ancora realizzato quel che è successo. Un attimo prima stava raccogliendo mirtilli insieme ai fratelli e alle sorelle, e i più giovani cantavano. Ora giacciono tutti al suolo come pupazzi disarticolati.
Il ragazzo si aggrappa a una roccia e cerca di tirarsi in piedi. Sa di essere ferito, una freccia l’ha colpito alla schiena. Prova a estrarla ma non ci riesce. E sente dolore dappertutto.
Quando alza lo sguardo, si trova davanti un uomo e una donna, biondi e bellissimi. Lei sta togliendo la corda dal suo arco senza neppure guardarlo; lui lo fissa con due occhi d’oro gelido, in cui non c’è traccia di pietà. Incocca una freccia, tende la corda.
“No!” urla il ragazzo. Vede sua madre, Niobe, che ha assistito al massacro con le mani premute sulla bocca. Solo allora capisce chi sono gli assassini: Apollo e Artemide, gli dei gemelli figli di Latona. Niobe l’ha offesa vantandosi di aver generato più figli di lei. La punizione non si è fatta attendere.
Allora il ragazzo china la testa, rassegnato. L’ultima cosa che sente è l’urlo straziante di sua madre.
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