Un laboratorio di ricerca aperto a tutti
Domani è l’ultimo giorno per poter seguire dal vivo un singolare micro-scavo archeologico all’interno di un museo. Al Museo archeologico di Sibari i visitatori hanno la possibilità di assistere in diretta al restauro e alle indagini scientifiche su un’antica sepoltura rinvenuta in località Favella di Corigliano-Rossano dove sono state rinvenute delle rarissime laminette d’oro.
È un vero esempio della ancora troppo poco frequentata archeologia partecipata che, come noi di Archeostorie sosteniamo da sempre, è l’essenza del mestiere dell’archeologo che non si deve limitare a studiare la storia passata ma deve farsi mediatore tra il passato e il presente in cui viviamo. Archeologia partecipata non significa mettere in mano una trowel al visitatore inesperto, né fare la conta degli ingressi a fine giornata. Vuol dire coinvolgere i cittadini nelle iniziative di conoscenza e valorizzazione di un bene archeologico, condividere con tutti l’esperienza di ricerca sul campo.
La scoperta
Ma di che scoperta si tratta?
Il ritrovamento è avvenuto a Favella della Corte, sulle colline che abbracciano la piana di Sibari. È un’area già esplorata in passato, a partire dalle indagini pionieristiche della fine dell’Ottocento che hanno portato alla luce sepolture monumentali del V secolo a.C. coperte da accumuli artificiali di terreno (i cosiddetti tumuli, in dialetto locale timponi).
Poi ci sono stati gli scavi degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e le campagne tra il 1990 e il 2002 che hanno studiato a fondo il vicino villaggio neolitico. È quindi un paesaggio storico composito dove compaiono pure i resti di fattorie e di tombe più semplici (tombe a fossa, a cassa, a cappuccina) di età ellenistica, tra IV e III secolo a.C.
La scorsa estate, a giugno, le cazzuole degli archeologi della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Cosenza si imbattono in uno scheletro, disposto in posizione supina, dentro una fossa di due metri per uno e profonda una quarantina di centimetri. La tomba, catalogata come 22.1, è verosimilmente del IV secolo a.C. e appartiene alla necropoli dell’antica città di Thurii, la colonia panellenica nata sulle rovine della distrutta Sybaris.
Gli elementi di corredo sono pochi: un guttus a vernice nera, cioè un antico biberon, adagiato sul fianco destro, vicino al bacino di quella che è stata identificata come una defunta e, accanto alla sua mano destra, due grumi d’oro che si sono rivelati frammenti di lamina iscritta e intenzionalmente accartocciata.
Laminette d’oro
Le laminette d’oro, nell’antichità, fungevano da manuali per l’aldilà con lo scopo di impartire al defunto istruzioni precise sul comportamento da tenere una volta giunto nell’altro mondo. Erano dei ‘pizzini’ sacri per gli iniziati all’orfismo, la dottrina filosofica e religiosa che, a partire dalla fine del VI secolo a.C., si era diffusa in Grecia e nelle colonie occidentali come Sybaris e Thurii.
In Calabria, così come a Creta e in Tessaglia, sono già venuti alla luce in passato esempi significativi di queste laminette orfiche, come la laminetta di Hipponion o a quella di Petelia. Ma gli esemplari più completi furono trovati nel 1879 proprio nei due timponi vicino ai quali è stata scoperta la tomba 22.1, e ora sono esposti al Museo archeologico di Napoli.
Queste laminette appena scoperte a Sibari, quindi, non sono solo una testimonianza rarissima. La loro grande importanza sta nel fatto che, diversamente dall’Ottocento, ora il loro contesto di rinvenimento – come lo chiamano gli archeologi – è rimasto intatto, e può fornirci informazioni più dettagliate sulla funzione delle laminette, il rito funebre connesso, la vita della defunta.
Il micro-scavo in laboratorio
Sono le delicate condizioni del terreno a decidere il destino della tomba 22.1. Il tetto a volta, infatti, ottenuto con l’uso di coppi semicircolari, risulta crollato all’altezza del cranio dell’inumata, provocando all’interno l’accumulo di terreno alluvionale che ha fatto scivolare il corredo dalla posizione originaria.
Per motivi di tutela e conservazione, lo scavo viene interrotto e ‘trasferito’ nel laboratorio museale. La tomba, in pratica, viene prelevata tutta intera e spostata all’interno del Museo di Sibari. Solo così, delocalizzata in un ambiente più protetto, può essere sottoposta a un esame meticoloso per documentarla digitalmente e, eventualmente, recuperare altri frammenti d’oro.
Il prelievo di campioni organici, i grafici, le foto, i modelli tridimensionali che si stanno eseguendo, serviranno a ricostruire i contesti sociali e antropologici di appartenenza: cosa la defunta mangiava, le sue patologie, le possibili cause di decesso, l’origine geografica, ma anche il suo ‘status’ sociale o la pratica funeraria utilizzata. Al momento, la decifrazione delle laminette, di pochi micron di spessore, ha rivelato tracce di lettere maiuscole dell’alfabeto greco disposte su almeno quattro righe, mentre le analisi isotopiche ci potranno svelare la provenienza dell’oro. La fase successiva delle attività in laboratorio prevede, invece, un restauro finalizzato alla pulizia, al consolidamento e rimontaggio degli elementi di copertura e del corredo della tomba.
È dunque coinvolta una nutrita squadra di studiosi in fisica, geologia, chimica, paleobotanica, petrografia, sedimentologia, palinologia che, nelle ultime due settimane, ha aperto ai cittadini tutti la porta della propria ‘officina’, una specie di open space allestito all’interno del Museo con le varie postazioni scientifiche al lavoro. E con un percorso didattico che illustra fasi e importanza della scoperta.
Le sorti dell’anima: l’acqua viatico di oblio o salvezza
Più che la defunta, però, sottesa ispiratrice dell’evento è la Memoria, in greco Mnemosyne, che dà infatti il titolo all’intero worksite: Mnemosyne, la memoria e la salvezza. È tra vita e morte che si colloca la memoria, cioè il tentativo di non cadere nell’amnesìa di se stessi. La memoria è il vero antidoto alla morte ed è l’unica via di salvezza secondo i dettami dell’orfismo.
L’adepto dell’orfismo giunge dunque nell’oltretomba da privilegiato, e attraverso la formula di riconoscimento “sono figlio della Terra e del Cielo stellato” dovrà dichiarare di voler bere l’acqua del lago di Mnemosyne, e non quella della fonte dove si affollano le altre anime che cedono all’istintiva sete di vita terrena. Queste infatti dimenticano e vengono così riportate nel sofferto ciclo delle esistenze. Chi invece, arso di sete spirituale, beve l’acqua di Mnemosyne, prosegue il cammino verso la beatitudine.
Acqua di punizione, e acqua di ricompensa. E in fondo, proprio all’acqua elemento primordiale è legata tutta la storia antica e moderna della Sibaritide, dall’antica città di Sybaris distrutta dai crotoniati deviando il corso del fiume Crati, alle rovine sommerse dall’alluvione del 2013.
Vera archeologia partecipata
I primi capitoli della scoperta, a Favella della Corte, ci raccontano la stratigrafia, la classificazione dei reperti, l’importanza della ricognizione sul campo. I passi successivi raccontano invece le prime fasi del restauro. A chiunque è andato e andrà al Museo di Sibari e condividere i momenti della ricerca con gli studiosi. Perché i dati scientifici e la loro gestione sono sì materia per specialisti, ma sono al servizio di tutti i cittadini. È questa la sfida di Sibari: un’operazione culturale con competenze multidisciplinari che vuole andare al di là del sensazionalismo della scoperta.
“L’iniziativa coinvolge il pubblico nel fare la storia. Chi viene a trovarci potrà assistere al rilevamento del dato scientifico” spiega il direttore del Parco di Sibari Filippo Demma. Sottolinea anche la necessità di frequentare un museo, piuttosto che visitarlo una sola volta. Perché tutti sono protagonisti della storia dell’archeologia e parte attiva del processo di conoscenza, anche i visitatori di un museo.
Monumenti e testimonianze del passato acquistano valore solo se inseriti in un dialogo continuo tra chi li studia e chi li abita. Il Parco archeologico di Sibari ha scelto di provarci, di mettersi in gioco, con uno copioso staff di professionisti. Quasi a provocare, a scuotere le sensibilità intorpidite della consuetudine, invitando alla partecipazione attiva calabresi e non.
Il disagio e l’appello
L’alto Jonio cosentino e Sibari, frazione di Cassano, sono pressoché isolati. Per spostarsi dalla costa jonica alle principali città della Calabria, si è costretti a viaggi lunghi e faticosi. E sono quasi utopia i collegamenti diretti con le città fuori regione. Il turista o l’appassionato di archeologia che vuole raggiungere la Calabria è fortemente scoraggiato. E non c’è archeologia partecipata e coinvolgente che tenga.
Mentre si annuncia per il 2024 una nuova stazione Tav a Pompei da 35 milioni di euro, pare d’obbligo un appello al ministro, o ai ministri, all’assessore, o agli assessori, di competenza: facciamo arrivare più treni dell’alta velocità nella piana di Sibari?
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