Bononia, maggio 2 a.C.
Aurelia è seduta all’ombra del porticato. Un venticello odoroso di erbe nuove riempie il giardino di sussurri.
L’anziana matrona allunga le mani, posate sulle ginocchia, perché il sole mattutino riscaldi le nocche gonfie e le articolazioni doloranti. Uno schiavo premuroso le ha messo accanto un tavolino di marmo a tre piedi con una brocca di vino ghiacciato, un calice d’argento e un bel vassoio di datteri, la sua grande passione.
Ma Aurelia non ha voglia di mangiare. Durante la notte è venuto a farle visita un fantasma del passato: non il defunto marito, ma il suo primo amore. Un amore proibito e sprecato in sospiri, sguardi densi come miele e progetti folli: Stefano, un liberto di Rodi, il maestro di retorica di suo fratello Quinto.
Le sembra di averlo lì, davanti a lei, tra i cespugli di rose e le colonne dipinte di un rosso brillante, più reale e concreto delle ancelle che parlano senza sosta sforzandosi di rallegrarla. Il sorriso un po’ storto, gli occhi color nocciola, l’ironia pacata con cui sapeva smontare la boria e l’arroganza del suo allievo…
Aurelia licenzia le schiave con un gesto brusco. Non è possibile crogiolarsi nei ricordi in mezzo al cicaleccio delle schiave. “Perché le ragazze sono così rumorose?”, si chiede spazientita, mentre le ancelle si disperdono nei recessi della domus. “Anch’io chiacchieravo tanto a quell’età?”
Infastidita dal riverbero del sole nella vasca della fontana, si volta a osservare gli affreschi che corrono sulla parete interna del peristilio. Deve stringere gli occhi, perché da qualche anno le sagome lontane le appaiono sempre più sfocate e confuse.
Sono tutte famose scene mitologiche: Pasifae che si struscia contro il toro, Leda avvinta al cigno, Giove che feconda Danae sotto forma di pioggia d’oro. La mano è di un ottimo artista, i colori vivaci; eppure quelle scene erotiche così esplicite non le danno alcun brivido.
Aurelia torna a guardare il giardino. Non capisce i gusti dei giovani d’oggi: dov’è finito il mistero, dov’è la complicità, il fascino del tabù e della scoperta? L’emozione di un occhiolino furtivo, due versi appassionati graffiti sul muro di casa, un fiore secco conservato nel cofanetto dei gioielli, i poeti alessandrini letti di nascosto sotto le coperte…
Perfino il sesso sembra diventato un’occupazione tra le altre: andare alle terme, seguire le corse al circo, fare spese, amoreggiare con mariti e mogli altrui. Uomini e donne collezionano amanti da sfoggiare come anelli alle dita. Esistono addirittura manuali che insegnano le tecniche di corteggiamento.
Che noia! Ridurre l’amore e i suoi segreti a un elenco di regole o passi obbligati, come le parti tecniche di un’orazione… povera gioventù!
Aurelia scuote la testa. Nessun libro può insegnare a farsi desiderare, ad assaporare il primo amore senza farlo diventare un’ossessione, a sopravvivere alla sofferenza cocente della fine di una storia acerba o di una passione non ricambiata…
Ovviamente Aurelia si guarda bene dal condividere questi pensieri con i nipoti. Si farebbero grasse risate all’idea che una vecchia nata ai tempi della guerra giugurtina, pensi di saperne più di loro su certe questioni. L’amore è cosa da giovani, lo diceva già il poeta Mimnermo secoli fa.
«Ma per osservare una burrasca bisogna stare sulla riva, non in mezzo alle onde» dichiara Aurelia ad alta voce.
Uno schiavo si precipita al suo fianco. «Hai chiamato, domina?»
Aurelia si gira a studiarlo. È un ragazzo magrissimo, dalla pelle scura come legno bruciato. Non l’ha mai visto prima. «E tu chi saresti?»
«Ater, domina.»
Aurelia sbuffa forte e scuote la testa. «Immagino sia stato mio figlio a darti questo nome. Ha sempre pensato di essere spiritoso.»
Lo schiavo china la testa in un assenso muto.
«Vieni dalla Nubia?»
«No, domina, da Alessandria d’Egitto. Mia madre era schiava di un funzionario greco.»
«Sei a Roma da molto tempo? Parli bene il latino.»
«Accompagnavo a scuola i figli del padrone e facevo guardia alle loro borse durante l’intervallo. Il maestro urlava così forte che non potevo fare a meno di sentirlo.»
Aurelia inarca le sopracciglia e si volta sulla sedia per osservarlo meglio. Il ragazzo ricambia il suo sguardo con occhi neri come l’ossidiana, senza traccia della deferenza che i nati schiavi acquisiscono col latte materno.
«Sembri un tipo sveglio. Come sei finito a Roma?»
«Sono stato venduto al grande mercato degli schiavi di Delo» risponde lui senza compromettersi.
Stavolta lo sbuffo di Aurelia è sinceramente divertito. «Anch’io ho visitato il mondo, ai bei tempi, ma ho avuto la fortuna di viaggiare sul ponte delle navi, non nella stiva. Sentiamo, cos’hai combinato di così grave da farti mettere all’asta col cartellino al collo?»
Ater rimane in silenzio per un lungo momento. Poi, con evidente riluttanza, risponde lentamente: «La figlia del padrone mi trovava simpatico.»
Aurelia annuisce. L’amore, pensa, è sempre l’amore la causa dei guai umani. Ma che meraviglioso, irrinunciabile, pazzo guaio da assaporare, per i liberi e per gli schiavi!
Ater la sta guardando dritto negli occhi come se leggesse i suoi pensieri. Abbozza un sorriso, e per un istante Aurelia ha l’impressione di rivedere un volto familiare.
Chi altri aveva lo stesso luccichio nello sguardo? Chi sapeva infiammare di malizia un sorriso così lieve da sembrare un’illusione ottica? Ma certo: quel ragazzo le ricorda Stefano, il suo amore perduto.
Chiude gli occhi per un istante, vacillando sotto il peso dei ricordi e dei rimpianti.
«Se vuoi stare da sola me ne vado, domina» dice Ater con voce quieta.
Aurelia scuote la testa. Riapre gli occhi e scruta quel viso serio, gli occhi vivi e intelligenti. «Non sei un gran chiacchierone, vero?»
Lo schiavo accenna un altro sorriso lieve come una nuvola passeggera.
«Allora puoi restare. Penso che andremo d’accordo, noi due.»
Aurelia richiude gli occhi. Il sole si è alzato, un raggio obliquo si è infilato sotto il portico e le batte sul viso. Ma la luce non le dà più fastidio.
Allunga la mano a prendere un dattero e lo addenta di gusto, a occhi chiusi, godendosi il tepore del sole sulla pelle.
0 commenti