Da museo a moschea
La decisione del Consiglio di Stato turco era attesa per giovedì scorso, ma è stata rimandata di quindici giorni. Presto dunque sapremo quale sarà il destino futuro di Santa Sofia. Perché questa volta pare che Erdogan stia facendo sul serio: quell’edificio che è stato cattedrale cristiana per mille anni, moschea per quattrocento, e dal 1935 è un museo per volere del laico Kemal Ataturk, dovrebbe tornare a essere una moschea.
L’idea era già nell’aria da tempo. Già dal 2006 una piccola stanza all’interno dell’edificio è destinata al culto islamico, e dal 2010 varie associazioni islamiche e membri del governo turco chiedono la trasformazione dell’intero edificio in moschea. Da qualche anno, poi, dai suoi minareti il muezzin canta l’invito alla preghiera, e l’anno scorso, alla vigilia delle elezioni municipali, Erdogan ha annunciato la propria intenzione con estrema chiarezza.
Quest’anno, infine, Erdogan ha fatto ancora un passo in più, decisivo. Il 29 maggio ha celebrato la ‘presa’ di Costantinopoli da parte di Maometto II nel 1453 – una festa istituita da lui stesso quand’era sindaco della città – proprio di fronte a Santa Sofia. Quasi a dire: è da sempre il simbolo dell’Impero bizantino, ma ora è nostro.
Santa Sofia patrimonio di chi?
Ma di chi è veramente Santa Sofia? A ogni boutade di Erdogan, il governo greco protesta affermando che l’edificio è Patrimonio dell’umanità dell’Unesco (è iscritto nella Lista dal 1985) e quindi ogni decisione dovrebbe essere presa consultando la comunità internazionale. La preoccupazione greca riguarda anche i preziosi mosaici figurativi della basilica che, in una sua conversione in moschea, dovrebbero essere nascosti alla vista di tutti, visitatori compresi. Ma l’appello all’Unesco è realmente la soluzione più adatta?
Da tempo andiamo dicendo che a decidere le sorti dei beni culturali dovrebbero essere innanzitutto i cittadini che li vivono ogni giorno. Sosteniamo che i luoghi della cultura devono avere un’utilità sociale ed essere parte integrante delle strategie di sviluppo territoriale. Citiamo a ogni passo la cosiddetta Convenzione di Faro del Consiglio d’Europa che ha ribaltato la concezione di patrimonio culturale, trasformandolo da un valore in sé, attribuito al bene stesso, a ciò che le popolazioni identificano come espressione dei loro valori e tradizioni: un valore, quindi, in evoluzione continua.
A questo punto, non possiamo fare marcia indietro e appellarci all’Unesco. E infatti Erdogan ha risposto tranquillamente che Santa Sophia è in suolo turco e pertanto lui decide per il meglio del suo popolo. Se volessimo applicare alla lettera il principio di Faro, Erdogan dovrebbe ascoltare in primo luogo i (pochi) abitanti di Sultanahmet, o per lo meno di Istanbul. Ma come sappiamo non è facile, e giungeremmo a risposte contraddittorie.
Principio di Faro e conflitti
Perché non è sempre facile applicare il principio di Faro. A parole pare semplice e bello e necessario, ma si può attuare solo in situazioni non conflittuali. Per esempio, ci siamo scagliati in molti contro l’Unesco per la sua infausta decisione di ricostruire il ponte di Mostar distrutto dalla guerra nei Balcani. Abbiamo capito che la gente di Mostar, almeno in quel momento, non lo voleva affatto, e che è servito a esacerbare ulteriormente il conflitto, piuttosto che a placarlo.
Ragioniamo però a posteriori. La città è ancora divisa, e solo quest’anno pare che si possano finalmente indire le elezioni amministrative, bloccate finora per un disaccordo tra le parti sulla riforma della legge elettorale. Senza l’intervento ‘dall’alto’ dell’Unesco, forse quel ponte non sarebbe mai stato ricostruito. È servito? Beh, a riunire le due parti della città, sicuramente. E forse col tempo lo si guarderà in modo diverso.
Con ciò non voglio affatto giustificare l’azione dell’Unesco che continuo a ritenere intempestiva e inopportuna, però voglio dire che le decisioni non sono mai semplici, univoche, e buone per tutti. Anche sulla recente questione delle statue, tutti noi stiamo assistendo inermi all’abbattimento negli Usa persino delle effigi di Cristoforo Colombo che non ha colpa alcuna dei problemi della società statunitense contemporanea. Però comprendiamo la rabbia di chi le sta abbattendo, e sappiamo che sovente la rabbia abbandona la logica.
Possibili soluzioni
Nel mondo contemporaneo, si dovrebbe raggiungere a un certo punto una lucidità sufficiente a ragionare su statue e monumenti, capire perché furono eretti e anche scoprire i dibattiti che hanno accompagnato il loro sorgere (tutti i monumenti hanno avuto origini controverse). Abbatterli serve a poco perché si oblitera la memoria degli eventi che celebrano, mentre si dovrebbero usare per far riflettere i cittadini. Questa è però operazione complessa che implica un superamento razionale di quei conflitti in tutta la società.
In qualche caso è stato possibile. A Bolzano, per esempio. Dal 2017, di fronte al contestatissimo bassorilievo di Hans Piffrader con al centro il Duce a cavallo, superbo decoro del Palazzo della Provincia ex Casa del Fascio, campeggia al neon la frase di Hannah Arendt “nessuno ha il diritto di obbedire”, opera di Arnold Holzknecht e Michele Bernardi. In piazza, un totem spiega in varie lingue la storia dell’edificio e la scelta recente. La scelta di non abbattere il monumento, come da più parti si chiedeva, ma di conservarlo e aggiungere un invito contemporaneo alla riflessione.
A Bolzano questo è stato possibile dopo anni, anzi decenni di dibattiti, e quando le tensioni politiche e sociali in città si erano ridimensionate. Ma non tutto il mondo è come Bolzano e, per tornare alla nostra Santa Sofia, la società turca attuale non è il luogo migliore per una soluzione razionale della questione. La mossa di Erdogan è chiaramente politica, e al momento è difficile pensare a una opposizione: lui ha l’autorità per decidere delle sorti di Santa Sofia, così come l’ha avuta Ataturk nel 1935.
Un’idea per Santa Sofia
L’anno scorso, dopo l’annuncio ufficiale di Erdogan, c’è stato chi ha proposto la soluzione forse più opportuna al giorno d’oggi. Concedere ai musulmani di usare di usare Santa Sofia come moschea il venerdì, e ai cristiani di usarla come chiesa la domenica. Utilizzare pannelli facilmente rimovibili per obliterare alla bisogna i mosaici figurati, e tappeti altrettanto facili da arrotolare per consentire la preghiera musulmana. Tutti gli altri giorni della settimana, lasciare l’edificio libero per le visite turistiche.
Tra l’altro, Santa Sofia è il monumento più visitato della Turchia e difficilmente il governo potrebbe rinunciare ai relativi introiti, e i commercianti di Sultanahmet ai propri guadagni. Sarebbe insomma una soluzione vantaggiosa per tutti. Ma sappiamo che non sempre nella storia si sono perseguiti il giusto e il vantaggio. Vedremo tra qualche giorno per Santa Sofia cosa accadrà.
Di fronte ai turchi c’è una sola risposta possibile: Lepanto. In attesa che chi di dovere (o più semplicemente di potere) si mobiliti in tal senso, anche l’appello all’Unesco (magari non platonico ma seguito dall’invio di caschi blu da parte della casa madre) è meglio che lasciarli fare
Beh, al giorno d’oggi abbiamo imparato il valore di non rispondere alla violenza con la violenza. Credo che dovremmo essere ragionevoli anche con chi non lo è. Alla lunga, è ciò che conta davvero
Direi che questo si chiama ‘buonismo’, con tutte le conseguenze a cui assistiamo quotidianamente, e sarebbe (è) comunque un tradimento della nostra storia e della nostra civiltà, anche qui con le conseguenze ben visibili. Non posso essere d’accordo né complice. Per chi capisce solo il bastone, bastone ferrato
La storia è fatta di incontri e scontri, e alla lunga i primi hanno sempre funzionato meglio, e in modo assai più duraturo, dei secondi