La premiazione è avvenuta il 30 agosto scorso a Maastricht, durante la Opening Ceremony del 23° Annual Meeting della European Association of Archaeologists. Il prestigioso European Archaeological Heritage Prize è stato consegnato quest’anno all’Unità di crisi e di coordinamento regionale Marche del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Nelle motivazioni, che ho letto personalmente in qualità Chair dell’European Heritage Prize Committee, si sottolinea che il premio viene assegnato “per l’eccezionale impegno e la forte azione volta alla protezione e alla conservazione del patrimonio culturale danneggiato dai terremoti che nel 2016 hanno devastato le regioni centrali dell’Italia”.
I disastri naturali sono, con i conflitti armati, tra le principali cause della distruzione del patrimonio culturale mondiale. L’Italia ha sofferto negli ultimi decenni diverse calamità di questo tipo: in Friuli, in Irpinia, in Umbria. Gli ultimi terremoti che dal 24 agosto 2016 al 18 gennaio 2017 hanno colpito le regioni dell’Italia centrale hanno devastato non solo le vite di migliaia di persone ma anche un patrimonio culturale che oltre a costituire il principale elemento di identità culturale delle comunità locali, è anche patrimonio condiviso a livello internazionale e fonte di sviluppo economico e turistico.
Chi recupera le nostre bellezze dai danni del terremoto
L’Unità di crisi e di coordinamento regionale Marche è una divisione periferica del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. È formata da archeologi, storici dell’arte e architetti statali che fin dalle prime fasi del dopo terremoto sono stati impegnati a verificare e documentare i danni causati dal sisma al patrimonio culturale, a progettare le azioni di protezione dei monumenti e dei siti danneggiati e a condurre le azioni di conservazione.
Con questo premio si intende riconoscere il valore di un progetto pubblico di protezione del patrimonio culturale che considera ogni singolo monumento, sito o museo come unità elementare ma fondamentale della percezione del paesaggio storico, riferimento materiale del rapporto culturale che le comunità stabiliscono con il proprio territorio. Distruggere il patrimonio significa distruggere la società, salvaguardare il patrimonio significa salvaguardarla.
Il merito di questo progetto va a tutto il gruppo dell’Unità di crisi. La loro azione merita tutto il riconoscimento e la gratitudine della European Association of Archaeologists. È la seconda volta che ho l’onore di consegnare l’European Heritage Prize dell’EAA. Nel 2016, a Vilnius, ne abbiamo assegnati due, all’Unité d’archéologie de la ville de Saint-Denis per il coinvolgimento dei cittadini nella pratica archeologica, e a Caroline Sturdy Colls per il contributo innovativo alla ricerca nel campo dell’archeologia dell’Olocausto.
La lingua del cuore
In entrambe le occasioni, mi è tornato alla mente il senso delle parole che pronunciò Martin Luther King all’inizio della sua Nobel Lecture l’11 dicembre 1964: “Nella vita ci sono dei momenti di inesprimibile soddisfazione che non possono essere compiutamente spiegati con quei simboli che chiamiamo parole. Il loro significato può essere articolato solamente attraverso la lingua non udibile del cuore. Quello che sto provando ora è uno di quei momenti”.
Fatte le dovute distinzioni, anche per me quelli di Vilnius e di Maastricht sono stati momenti di inesprimibile soddisfazione. Soddisfazione per il riconoscimento fatto a studiosi e a istituzioni che si impegnano per far svolgere all’archeologia un ruolo diverso nella nostra società.
Nel caso del premio assegnato all’Unità di crisi, inesprimibile è il terremoto stesso: come si può definire un evento che polverizza in pochi secondi la vita dei nostri paesi, il tempo storico e il tempo personale materializzati nei monumenti, nelle case, nelle chiese, la memoria comunitaria accumulata per secoli o per millenni? Per etichettare i crimini contro il patrimonio perpetrati nei conflitti armati che insanguinano il nostro presente è stata coniata una parola inglese efficace ma intraducibile in italiano: heritocide. Ma il terremoto non è un criminale, colpisce nella più totale impunibilità, e questo lo rende ancora meno accettabile, come un destino implacabile, indicibile: per questo non riusciamo a dare un nome al disastro che compie.
Le parole del cuore di cui parlava Martin Luther King si rivolgono prima di tutto alle persone che in quell’inesprimibile disastro hanno perso la vita: tutto il patrimonio culturale del mondo non ha il valore di una sola vita umana. Poi però si rivolgono a quelli che restano a vivere in quel paesaggio di rovine, in quel deserto della memoria e della storia. Ma in quel deserto si muovono delle figure, archeologhe e archeologi, storiche e storici dell’arte, architetti, giovani e meno giovani funzionari, che ogni giorno si sporcano, letteralmente, le mani per tentare di rimettere insieme, e a volte rimettere in piedi, un mondo distrutto e a ridare un senso a quello che sembra non avere più un senso. Ma, parafrasando Don Milani, a cosa serve avere le mani ‘sporche’ se le teniamo in tasca? Facciamole vedere, quelle mani, facciamo vedere la polvere che le ricopre, alziamole come testimoni della continuità della vita.
Questo è avvenuto a Maastricht: quando la giovane archeologa dell’Unità di crisi ha fatto vedere le immagini del loro lavoro, le loro ‘mani sporche’, nella grande sala si è percepito uno spirito diverso rispetto a quello che si percepisce alle lezioni magistrali dei grandi archeologi, uno spirito che lasciava spazio al sentimento (la lingua non udibile del cuore), una cosa che, come diceva Ingmar Bergman, non si insegna a scuola, uno spirito che cerca di dare un senso al fare archeologia che non sia solo quello raccontato in The golden Marshalltown da Kent Flannery agli inizi dell’edonismo reaganiano: “I do it because archeology is still the most fun you can have with your pants on”.
È un senso che dopo tanti anni ancora cerco. Quando mi chiedono che lavoro faccio, rispondo: “l’archeologo, ma sto cercando di smettere”, quasi fosse un vizio assurdo. Ma le occasioni come quella di Maastricht mi fanno in parte riconciliare con la mia disciplina, che vorrei più indisciplinata, meno accademica e autoreferenziale, più riflessiva, meno istituzionale, più pubblica, meno epica, più narrativa. Su ciascuna di queste qualità e di questi difetti vorrei parlare per ore. Ma anche gli archeologi devono guadagnarsi la pagnotta (quelli che ancora ci riescono) e quindi devo andare a lavorare.
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