24 ottobre 79 d.C.
Le acque della baia si increspavano in onde tranquille, azzurro scuro. Molto più in là, sopra i monti, si levava una colonna di fumo biancastro, screziato di grigio e nero, che si allargava e si sfilacciava nel limpido cielo autunnale come la chioma di un pino.
Plinio corrugò la fronte, sconcertato. Quando sua sorella era entrata a precipizio nel suo studio per annunciargli quel prodigio nel solito tono teatrale, aveva pensato che stesse esagerando: probabilmente un contadino stava bruciando rami ed erbacce nel suo campo, oppure i pastori avevano acceso un fuoco per riscaldare il pranzo. Si era fatto portare i calzari ed era uscito solo per accontentarla.
Invece la nube era lì, fosca, immensa e minacciosa, a ricordare a tutti i mortali che la collera degli dei era sempre pronta ad abbattersi su di loro per spazzarli via in un soffio, come formiche nel temporale.
E dopo lʼultimo terremoto…
“Cosa ne pensi?” domandò Plinia impaziente mentre rientravano in casa. Lo spiava avidamente in viso per studiare la sua reazione, pronta a riferire ogni sua parola a tutte le matrone del vicinato.
Plinio si strinse nelle spalle, attento a non lasciar trapelare la preoccupazione. Come ammiraglio della flotta aveva il dovere di mantenere lʼordine, non certo di contribuire a diffondere paure superstiziose tra i suoi concittadini.
Guardò suo nipote, che sbadigliava su uno scritto di Tito Livio, insonnolito per il troppo cibo e per il calore del braciere, e si accigliò.
Come poteva restarsene stravaccato tra i cuscini quando a poche miglia da lui si svolgeva uno spettacolo unico nella storia naturale?
“Penso che prenderò una nave e andrò a dare unʼocchiata più da vicino. Vorresti accompagnarmi, Gaio?”
Il ragazzo sussultò sentendo fare il suo nome. Si raddrizzò con aria colpevole e il rotolo gli scivolò dalle mani. “Ehm, come dici, zio?”
“Ti ho chiesto se vuoi venire con me a vedere quella nube. Non avremo mai più lʼoccasione di assistere a un simile fenomeno.”
“Ah… la nube, certo… ecco, io…”
Plinio trattenne un sospiro di esasperazione. Poteva quasi vedere gli ingranaggi rimettersi lentamente in moto dentro quel cervello annebbiato dal sonno.
“… credo che farei meglio a restare qui per attendere ai miei studi. Intendo svolgere il compito scritto che mi hai assegnato con la massima diligenza.”
“Al Tartaro la diligenza!” stava per sbottare Plinio. “Ci sono cose più importanti dei compiti nella vita!”
Ma ovviamente non lo disse. Gli aveva dato il suo nome, si era occupato personalmente della sua educazione e nessuno avrebbe potuto desiderare un nipote più devoto, mite e assennato. Eppure, a volte, Plino si scopriva insofferente di fronte alla passività e al conformismo di quel ragazzo.
Non che desiderasse ritrovarsi in famiglia un ribelle o uno scapestrato, no di certo; soltanto, avrebbe voluto vederlo un poʼ più… più…
Più curioso, disse a se stesso, più vivace. Non ha ancora diciottʼanni, per gli dei! Dovrebbe alzarsi da quel triclinio e correre a prendersi la vita a piene mani, invece di sognare una carriera da funzionario imperiale.
Pensieri indegni di un tutore, si rimproverò da solo, mentre ordinava agli schiavi di preparargli una liburnica e usciva di casa diretto al porto. Ogni uomo aveva il suo carattere, e quello di suo nipote non era certo tra i peggiori…
Sulla soglia quasi si scontrò con uno dei suoi schiavi più giovani, che arrivava di gran corsa. Plinio stava per rimproverarlo, ma il ragazzo ansimò, tenendosi il fianco: “Padrone, un messaggio urgente!”
Prese il rotolo con un brutto presentimento. Aveva riconosciuto il sigillo: i suoi amici Casco e Rectina vivevano proprio alle pendici del Vesuvio. Era stato ospite più volte nella loro splendida villa affacciata sul mare.
A confermare i suoi timori, la missiva iniziava senza una parola di saluto o di introduzione. Plinio strinse gli occhi nello sforzo di decifrare le lettere. La grafia di Rectina era nervosa e aggrovigliata.
Secondo, amico mio, spero che questo messaggio ti raggiunga in tempo. Ci troviamo in una situazione critica, noi e molti altri. Ti prego, per lʼantica amicizia che ci lega: vieni a salvarci, portaci via da questa terra di fuoco e cenere…
Plinio non perse tempo a leggere oltre. “Crispo!” urlò. “Afro!”
Gli schiavi accorsero allarmati. Non era cosa di tutti i giorni vedere il padrone perdere la calma.
“Voglio tre quadriremi pronte a salpare entro unʼora” ordinò Plinio.
“Ma padrone, hai chiesto una nave leggera” provò a obiettare Afro.
“Ho cambiato idea. Andate. Subito!”
I due corsero via, contagiati dalla sua urgenza.
Plinio uscì di casa e si inerpicò lungo una scarpata da cui si godeva una buona vista sul golfo, senza curarsi delle ginestre spinose che gli graffiavano i polpacci. Rimase lì, immerso nei cespugli fino alle ginocchia, con il papiro stretto nel pugno e lo sguardo fisso alla nube che andava espandendosi come un gigantesco albero di nebbia e fumo. Qua e là, nel mosaico verde-giallo-bruno dei campi e delle vigne, baluginavano luci rossastre. Lo splendore del sole cominciava a offuscarsi, come se un velo leggero schermasse i suoi raggi.
Plinio scosse forte la testa per scacciare i suoi timori, tornò sulla strada e scese verso il porto a grandi passi.
Le navi che aveva richiesto erano pronte a salpare. Plinio impartì qualche secco ordine e salì a bordo, rimbeccando aspramente chi provava a chiedergli maggiori spiegazioni. La nuvola continuava ad allargarsi in un cielo sbiadito. Quando le quadriremi lasciarono il porto, gli parve che sul golfo stesse calando un crepuscolo innaturale.
“Quale è la nostra rotta, prefetto?” chiese il suo secondo.
Plinio indicò la nuvola che dilagava sopra il mare, in silenzio. Si aspettava ogni genere di timori e dicerie superstiziose da parte dei marinai, ma Manlio era un tipo concreto, temerario e poco dotato di fantasia.
“Dritto nel cuore del pericolo” commentò infatti allegramente prima di allontanarsi per trasmettere lʼordine al pilota.
La foschia andava aumentando. Plinio si sentì sfiorare la guancia da qualcosa di soffice. Per un istante, assurdamente, pensò a un fiocco di neve; ma era tiepido. Tese la mano davanti a sé per raccoglierne un altro nel palmo.
Cenere. Cenere calda pioveva sulle navi come una lenta nevicata grigia. Divenne sempre più fitta mentre le navi puntavano dritto verso il Vesuvio. Una pietra pomice rimbalzò sullʼassito con uno schiocco secco. Poi unʼaltra, e unʼaltra ancora.
“Siamo sulle soglie dellʼAde!” urlò un vogatore, preso dal panico. “Dobbiamo invertire la rotta!”
Venne subito fatto tacere, ma un altro gli fece eco: “Invertiamo la rotta! È il giudizio di Giove!”
“È la punizione degli dei per i vizi della capitale!”
“Bruceremo vivi con le nostre navi!”
“Silenzio!” urlavano gli ufficiali, tentando di riportare lʼordine. “Remate!”
Plinio capì che doveva agire subito, se non voleva rischiare un ammutinamento. Tono calmo e viso imperturbabile, chiamò il suo assistente e cominciò a dettare ad alta voce, descrivendo nei minimi particolari la forma e lʼevoluzione della nuvola di fumo. Ebbe cura di riportare il fenomeno in termini freddi e scientifici, senza prestare attenzione al tumulto dei marinai, e pian piano le voci di protesta si spensero.
Le navi continuavano a filare sulle onde grigioazzurre verso i monti sovrastati da un cielo ormai livido. Qualche marinaio cominciò a tossire e starnutire, qualcun altro a strofinarsi gli occhi arrossati. Plinio, che aveva sempre sofferto di bronchiti e mal di gola, dovette esercitare tutto il suo autocontrollo per non mostrare segni di disagio. Si fece portare dellʼacqua fresca e continuò a dettare le sue osservazioni, attento a mantenere la voce ferma.
La costa si avvicinava, e così i bagliori degli incendi. Il respiro bruciava in gola.
“Ammiraglio, non possiamo proseguire!” urlò il pilota. “La montagna è franata in mare. Se proseguiamo oltre, ci incaglieremo in un bassofondo. Dobbiamo invertire la rotta subito!”
Per la prima volta, Plinio esitò. Aveva tutti gli occhi puntati addosso. Il destino di molti uomini dipendeva dalle sue decisioni.
Lʼaria stava diventando irrespirabile. Una sola parola e sarebbe potuto tornare a terra, al sicuro, insieme a sua sorella e suo nipote. Aveva ancora molte cose da insegnare a quel ragazzo.
I suoi occhi corsero alle luci che splendevano sulla montagna. Quel tratto del litorale godeva di panorami mozzafiato: era costellato di splendide ville, come quella di Casco e Rectina. E tanta bellezza rischiava di scomparire per sempre sotto la cenere.
Il prefetto della flotta di Miseno poteva abbandonare i suoi concittadini a una fine così misera senza nemmeno provare a salvarli?
Trasse un sospiro impercettibile.
“La fortuna aiuta gli audaci” disse. “Dirigiamoci verso la villa di Pomponiano: il vento è a nostro favore. Arriveremo in un lampo.”
“Ma non riusciremo più a tornare indietro” osservò Manlio.
Plinio lo guardò dritto negli occhi. “Ci sono molti cittadini romani da soccorrere, laggiù.”
Contro ogni logica, il viso squadrato dellʼufficiale si aprì in un largo sorriso. Manlio annuì senza altri commenti e andò a conferire con il pilota.
Plinio rimase a guardare il mare e il cielo farsi sempre più cupi. Fiocchi di cenere calda si sfaldavano al contatto con le onde. I piedi dei marinai lasciavano soffici impronte sul ponte.
Man mano che si allontanavano dal vulcano, attraversando il golfo, il cielo si schiarì e lʼacqua si fece più pulita. Infine le quadriremi emersero dalla foschia come navi fantasma.
I marinai si fermarono un istante per respirare a pieni polmoni lʼaria pulita.
“Siamo stati preceduti” commentò Manlio, lo sguardo fisso sulla riva che si avvicinava in fretta.
Plinio si accostò a lui. Sembrava che la popolazione al completo si fosse data appuntamento sulla spiaggia. Molti portavano borse e fagotti sulle spalle; gli schiavi delle famiglie più abbienti conducevano carri carichi degli oggetti più disparati. Imbarcazioni di ogni dimensione erano pronte a salpare non appena il vento fosse caduto.
Pomponiano aveva già imbarcato tutti i suoi averi e scrutava le quadriremi in avvicinamento con lʼangoscia dipinta in faccia. Appena Plinio mise piede sulla spiaggia lo abbracciò così forte da fargli male, senza nemmeno lasciargli terminare il saluto. “Secondo, hai visto? È la fine! Gli dei ci puniscono per i nostri eccessi!”
Plinio gli strinse le spalle ridendo. “Se così devʼessere, facciamo le cose per bene. Sii gentile, fammi preparare un bagno e poi la cena!”
Lʼamico lo guardò a occhi sgranati. “Siamo nel bel mezzo di una catastrofe e tu hai voglia di scherzare?”
“Catastrofe? Io vedo solo un interessante fenomeno naturale. Non vedo lʼora di descriverlo nella mia prossima opera”. Plinio lo prese sottobraccio e fece cenno a Manlio di seguirli. “Domattina attraverseremo il golfo e ti ospiterò finché la situazione non sarà tornata alla normalità, che ne dici? Adesso andiamo a mangiare.”
“Ma… quelle luci rosse sulla montagna…”
“Fuochi di contadini” tagliò corto Plinio, senza guardare in direzione del vulcano. “Saranno scappati senza spegnerli. Così rischiano di incendiare tutte le coltivazioni… bellʼesempio di forza dʼanimo e pragmatismo romano!”
Qualcuno tra gli schiavi e i marinai azzardò una timida risata.
“Questo è lo spirito che ci vuole!” approvò Plinio. “Forza, andiamo a casa a ristorarci.”
Guidò personalmente la comitiva verso la domus di Pomponiano. Conosceva bene la strada.
Quando furono arrivati, una rapida occhiata al suo ospite lo convinse che toccava a lui fare gli onori di casa: Pomponiano si trovava in un tale stato di agitazione che il suo attendente personale fu costretto a indirizzarlo verso lʼingresso prima che andasse a sbattere contro una colonna.
Dopo il bagno, Plinio fece del suo meglio per rasserenare gli animi, chiacchierando del più e del meno mentre gli schiavi servivano la cena. Rise e scherzò, lodò tutte le pietanze che gli vennero offerte, rispose alle domande cortesi sui suoi ultimi studi e domandò a Pomponiano notizie su conoscenti e amici comuni.
Più di una volta, con la coda dellʼocchio, colse lo sguardo acuto di Manlio fisso su di lui. Solo il suo secondo poteva intuire quanto gli costasse quella recita.
Quando fu abbastanza tardi per potersi congedare senza sembrare maleducato, si ritirò nel cubicolo che gli avevano preparato e si buttò sul giaciglio, liberando un lunghissimo sospiro. Era esausto. Aveva la gola gonfia e irritata, gli occhi che non smettevano di lacrimare.
Sto proprio diventando vecchio, pensò, con un sorrisetto autoironico. Dovrei dormire di più, leggere meno, posare lo stilo e riposarmi gli occhi e la mente, come raccomanda il mio medico.
Se solo non ci fossero tante domande ancora in cerca di una risposta. Questo mondo è immenso e pieno di meraviglie, e la vita umana troppo breve.
Tirò un altro sospiro, che si trasformò subito in un accesso di tosse. Bevve dellʼacqua e si augurò che il vento ripulisse lʼaria durante la notte. Prima di coricarsi era uscito nel porticato per contemplare il golfo: le stelle non si vedevano, ingoiate dal fumo e dalla cenere, ma i bagliori degli incendi sulle montagne coloravano la notte di vampate scarlatte.
Uno spettacolo da levare il fiato. Era in occasioni come quelle che Plinio sentiva il cuore del cosmo battere allʼunisono col suo. Erano quei momenti che lo spingevano a farsi domande, domande e ancora domande, affascinato dal mistero infinito della natura, dalla sua pericolosa bellezza.
E in un momento simile, dovʼera suo nipote? A casa, senzʼaltro addormentato sul suo soffice torus, incurante di tutto eccetto i suoi bravi compiti.
Domani, quando tornerò a casa, devo assolutamente parlargli, decise Plinio. Bisogna che gli spieghi cosa significa essere uno studioso. La diligenza non basta. Ci vogliono curiosità, impertinenza e coraggio. Ci vuole passione.
E tutto si poteva dire di suo nipote, tranne che fosse un tipo passionale.
Rimuginando tra sé il discorsetto che voleva propinargli, si addormentò senza nemmeno accorgersene.
“Prefetto! Prefetto, devi alzarti!”
Si svegliò di soprassalto. Qualcuno lo scuoteva rudemente per la spalla.
Con la vista ancora annebbiata, Plinio ci mise un poʼ a riconoscere Manlio. Quando tornò in sé, trasalì per lo stupore e si sollevò su un gomito, aggrottando la fronte. Era inammissibile che un soldato, fosse pure il suo fidato ufficiale, si presentasse in camera sua nel bel mezzo della notte e lo svegliasse in quel modo. Dovʼerano finiti gli schiavi?
Aprì la bocca per apostrofarlo severamente, ma fu colto da un attacco di tosse così violento che Manlio lo sostenne per evitare che cadesse dal letto.
Plinio si mise a sedere, respirando con affanno. Cʼera qualcosa che non andava. Rumore di passi, trambusto, grida soffocate. Dal cortile proveniva il riverbero tremolante di fiaccole accese. Lʼaria era calda e satura di polvere. E, per una volta, Manlio non stava sorridendo.
Lʼufficiale lo aiutò ad alzarsi e lo condusse fuori. “Vieni, non cʼè tempo da perdere!”
Plinio incespicò verso lʼuscita, ma quando fu allʼaperto sbatté gli occhi, allibito.
Il cortile era ricoperto di cenere e pietre corrose dal fuoco. Il cielo era innaturalmente scuro, come se qualcuno avesse rovesciato un atramentarium pieno di china nera sopra la luna e le stelle. Sagome indistinte correvano qua e là con torce accese.
“Che ora è?” chiese frastornato.
“Non lo so, prefetto. Forse è già giorno. Dobbiamo muoverci!” Manlio lo stava trascinando quasi di peso verso il triclinio invernale.
Là trovarono il padrone di casa e i suoi ospiti, che discutevano animatamente, aggirandosi per la stanza con i capelli arruffati e le facce stravolte dallʼangoscia. Plinio intuì di essere stato lʼunico a godersi un breve sonno.
Quando entrò cadde un silenzio improvviso. Pomponiano gli andò incontro a braccia tese. “Secondo, cosa dobbiamo fare? Se restiamo in casa rischiamo di essere sepolti vivi, ma fuori piovono pietre dal cielo e le case tremano fin dalle fondamenta… non cʼè via di scampo!”
Plinio si prese un momento per pensare. Tutti i presenti lo guardavano pieni di speranza, come se lui potesse trasportarli altrove con uno schiocco di dita.
“Le pomici sono leggere” disse infine. “E ci terremo lontani dai caseggiati pericolanti. Meglio raggiungere la spiaggia e tentare di prendere il mare, se il vento ce lo permette.” Si guardò intorno e adocchiò un paio di schiavi in fondo alla sala, pallidi e terrorizzati. “Portate qui tutti i cuscini che riuscirete a trovare in casa” ordinò.
I due gli lanciarono uno sguardo sbigottito, ma obbedirono.
“Ce li legheremo sopra la testa per proteggerci dalle pietre” spiegò Plinio agli astanti. Sperava solo che quanto stava dicendo avesse un senso.
Era una buffa comitiva quella che si mise in marcia verso la spiaggia. Se si fosse trovato a teatro, Plinio avrebbe riso di gusto nel vedere un prefetto della flotta imperiale correre alla cieca con un cuscino in testa.
Ma non si trattava di una commedia. La terra si scuoteva con ruggiti rabbiosi, pietre e ceneri cadevano dal cielo come grandine. Molti edifici erano già in fiamme. Gli abitanti di Stabiae fuggivano in massa, urlando di terrore, e nessuno si fermava ad aiutare gli anziani, gli infermi e i bambini che si smarrivano nella calca; ciascuno pensava solo a mettersi in salvo.
Quando raggiunsero la spiaggia, Plinio capì subito che non sarebbero riusciti a imbarcarsi. Il vento contrario soffiava più forte che mai, sollevando onde crestate di spuma.
Si sedette, respirando a fatica. I due giovani schiavi che Pomponiano gli aveva assegnato stesero un drappo sulla sabbia e gli diedero dellʼacqua fresca. Plinio colse i loro scambi di sguardi sopra la sua testa. Stavano aspettando lʼoccasione buona per fuggire.
Perché dovrei biasimarli? Sono giovani. Hanno più diritto di sopravvivere di quanto ne abbia un ammiraglio vecchio e grasso.
Suo nipote si sarebbe scandalizzato a sentire quel pensiero.
Le labbra di Plinio si incurvarono in un debole sorriso. Il giovane Gaio avrebbe dovuto prendere il suo posto, ormai, che fosse pronto o meno.
“Si sta avvicinando!” urlò qualcuno.
Plinio alzò lo sguardo. Lʼaria già densa di fumo si stava caricando di un odore acre, di zolfo e legna bruciata, che prendeva alla gola. Ricominciò a tossire, cercò di sollevarsi aggrappandosi alle gambe dello schiavo più vicino.
Il ragazzo lo spinse via con una ginocchiata e si mise a correre lungo la spiaggia. Il suo compagno esitò un istante, poi gli andò dietro.
Bocconi sulla sabbia, Plinio si guardò intorno, accecato dal fumo e dalle lacrime. Non vedeva nessun volto noto. Tutti, perfino Pomponiano, erano fuggiti in cerca di scampo. Si sentivano crepitare le fiamme.
“Prefetto! Prefetto! Dove sei?”
La voce di Manlio, persa nella foschia. Plinio cercò di prendere fiato per rispondere, ma non ci riuscì. Stramazzò a terra, annaspò, riuscì a girarsi sulla schiena. Il cielo sopra di lui aveva il colore del piombo, tinto da vampate rossastre. Ceneri calde e lapilli fischiavano sullʼacqua.
Questo cataclisma verrà raccontato per generazioni, riportato in ogni trattato di storia naturale, tramandato ai posteri. In fondo, mi trovo proprio dove devo essere.
Suo nipote avrebbe senzʼaltro saputo sfruttare quella coincidenza per narrare la sua morte come la perfetta dipartita del saggio stoico.
Si concesse un ultimo sorriso. “Gaio…” soffiò.
Poi dalle sue labbra gonfie non uscì più alcun respiro.
Secondo la testimonianza del nipote Plinio il Giovane, Gaio Plinio Secondo venne ritrovato sulla spiaggia di Stabia tre giorni dopo la morte, quando tornò la luce del sole.
Il corpo era intatto e giaceva nella postura di un uomo addormentato.
Chiaro, vivace a attraente , una ricostruzione. Efficace
Grazie! Anche a nome dell’autrice