Roma, febbraio del 73 d.C.
Uno dei vantaggi della vecchiaia, pensa Mario, è la libertà di parola. L’unico momento della vita in cui puoi dire tutto quello che ti passa per la testa, fregandotene di sembrare maleducato.
“E allora, cosa aspettiamo? La fine dei lavori all’anfiteatro Flavio?”
I due adolescenti in fila davanti a lui si voltano perplessi, per capire se quel vecchietto infuriato ce l’ha con loro.
“Sì, parlo con voi. Quanto ci vuole per scegliere un panino? E perché non siete a scuola, eh?”
I ragazzi arrossiscono. “Stavamo proprio per…” comincia il più coraggioso.
“Due focacce alle olive” lo interrompe Mario, rivolgendosi direttamente allo schiavo che serve al banco. “E facciamola finita.”
“Ma io volevo un panino al mosto” tenta di protestare il Temerario.
“Non ti azzardare! Quello lo prendo io!”
Clemente, il fornaio, emerge dal retrobottega con un vassoio di pane fumante. “Buongiorno, Mario. Stai cercando di farmi perdere clienti, come al solito?” Posa il vassoio, fruga sotto il bancone e tira fuori una pagnotta scura, che gli passa sopra le teste dei ragazzi. “Eccolo qui. Te ne tengo sempre uno da parte, lo sai.”
“Promesse, promesse” brontola Mario. “Parole al vento.”
“Le promesse di una donna al suo amante vanno scritte nel vento e sull’acqua che corre” cita il Temerario con aria ispirata, sbagliando clamorosamente la metrica del verso. “L’ha detto Catullo” aggiunge orgoglioso.
“Catullo” fa eco l’amico.
Il fornaio scuote la testa, commiserando quei due poveretti. Non sanno di aver appena calpestato un vespaio.
Mario, infatti, si sta gonfiando come una nuvola di temporale. “Catullo!” sbraita, paonazzo. “Uno che predica il disimpegno politico e chiama le sue stesse poesie ‘Scemenze’! Bell’esempio! È questo che studiate a scuola, oggigiorno?”
“Ma è un grande poeta d’amore!” protesta debolmente il Temerario.
“L’amore non è un passatempo per poeti sfaccendati” sbotta Mario. “È una promessa che si rinnova ogni giorno, senza tante chiacchiere.”
I due ragazzi si scambiano un’occhiata complice. Non osano replicare ad alta voce, ma quello che pensano è evidente: cosa vuoi che ne sappia, dell’amore, questo avanzo bellico delle guerre civili?
“Andatevene a lezione, adesso” interviene Clemente. “O il vostro maestro verrà a cercarmi con la frusta in mano.”
I ragazzi non se lo fanno ripetere due volte e prendono la porta con libri e focacce sottobraccio.
“Tutto questo casino per un panino al mosto” borbotta il Temerario prima di uscire.
Mario paga, saluta Clemente e si incammina lungo la strada, fermandosi spesso per riprendere fiato. La sua casa è proprio l’ultima della via, e poi ci sono le scale, che ogni giorno sembrano diventare più lunghe e malmesse. Arranca faticosamente fino al terzo piano, armeggia con le chiavi, entra e si lascia cadere su uno sgabello, spompato.
Sua moglie Erminia è stesa sul letto, con la schiena appoggiata a una pila di cuscini. Gli sorride: “Tutto bene, caro?”
“Sì, sì. Ho solo il fiato corto.”
“Lavori troppo” commenta lei, preoccupata. “Tutta quella polvere di legno finirà per rovinarti i polmoni.”
Mario ha ceduto la sua falegnameria al nipote molti anni prima, ma abbozza un sorriso e accenna di sì con la testa. “Guarda cosa ti ho portato.”
“Un panino al mosto! Il mio dolce preferito!” Erminia batte le mani come una bambina, ma torna subito seria. “Forse dovrei tenerne da parte un po’ per Decimo. È sempre così ingordo, quel ragazzo!”
Mario lancia un’occhiata al ritratto in cera del figlio, che li fissa dalla sua nicchia nella parete, insieme agli altri spiriti protettori della famiglia. “Non preoccuparti, lui non ha più fame.”
“Allora prendilo tu.”
“No” dice lui. “Questa è la tua leccornia personale, lo sai. Un vizio al giorno non si nega a nessuno!”
Lei ridacchia. Se lo sono ripetuto ogni mattina per cinquant’anni, mentre facevano colazione insieme.
Mario spezzetta il panino ancora tiepido e immerge ogni boccone nell’acqua per ammorbidirlo, prima di passarlo alla moglie. E rimangono in silenzio, aspirando il profumo del pane, contenti di essere ancora insieme.
0 Comments