Roma, Suburra, 8 marzo 12 d.C.
La faccia è rossa e molliccia. La testa schiacciata come un uovo. Le mani grinzose sembrano quelle di una vecchia.
Non è così che se l’era immaginata, ma resta comunque sua figlia. La sua bambina, uscita dal suo corpo, nutrita prima dal suo sangue e adesso dal suo latte.
Egle distoglie lo sguardo, col cuore in subbuglio.
I primi raggi del sole infiammano i tetti della città, ma nei vicoli ristagna un’ombra densa, carica dell’umidità notturna. Meglio così. Quel che va fatto non è certo un reato, ma lei preferisce occuparsene lontano da occhi indiscreti.
Cammina rasente ai muri, accelerando il passo quando sente aprirsi una finestra ai piani superiori dei caseggiati, giusto per evitare di essere centrata dal contenuto di qualche pitale. Non che la cosa abbia importanza, in questo momento. I suoi pensieri sono tutti per il fagotto che tiene stretto al petto.
Il vicolo sfocia in una piazzetta illuminata dal sole. L’acqua zampilla da una fontana, proprio accanto a un pilastro sovrastato da una testa barbuta di Mercurio. Ecco, questo è un buon posto. Non c’è ancora nessuno, ma presto la piazza si popolerà di lavandaie, schiavi assonnati in fila per attingere l’acqua, ortolani coi carretti colmi di frutta e verdura.
Egle prende un respiro profondo, e poi si china ad appoggiare il fagotto ai piedi del pilastro. Mormora a fior di labbra una preghiera rivolta a Mercurio. In fondo, è il dio dei colpi di fortuna e dei guadagni inaspettati. Forse un animo gentile si fermerà a raccogliere quell’esserino fragile, colpevole solo di essere nato. I cacciatori di schiavetti da avviare alla prostituzione di solito non bazzicano quella zona.
La coperta si muove, dalla lana spunta una manina rosa. Un verso simile al miagolio di un gattino si mescola allo scroscio dell’acqua nella fontana.
Egle volta bruscamente le spalle. Sta pensando alla faccia sgomenta di sua madre se potesse vederla in quel momento; sua madre che si è ammazzata di lavoro e sacrifici per comprarsi la libertà appena prima della sua nascita. Quante volte le ha raccontato quella storia: partorire una figlia viva, sana e libera è stato il grande trionfo della sua vita.
Povera donna! Nata schiava in una domus aristocratica, non poteva sapere che la libertà senza soldi significa fame, freddo, debiti, miseria. Cinque gravidanze, faticosissime; tre bambini vivi da sfamare; il marito scomparso nell’ultima epidemia: ci manca soltanto un’altra dote da risparmiare…
Grazie tante, Giunone Lucina, protettrice delle partorienti!, pensa con ironia feroce. Sa che è un sacrilegio, ma non riesce a controllare i pensieri. Se sopravviviamo al parto è solo per perdere le nostre figlie alla nascita, o vederle umiliate, escluse, violate, ripudiate, o spose ancora bambine. Perché gli dei ci infliggono tanta sofferenza? Cos’abbiamo fatto per meritarcela?
Il lamento vibrante della neonata sale di tono. Egle si stringe addosso il mantello e si allontana a passo rapido, ingoiando le lacrime.
Il pianto della madre e quello della bambina si perdono nel frastuono degli ultimi carri che stanno lasciando la città, ligi al divieto di circolazione diurna. A Roma è appena iniziata un’altra giornata.
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