È da anni, ormai, che si parla di un museo da far nascere nel quartiere della periferia a nord di Napoli. A Scampia. A chiederlo nel corso del tempo, a spizzichi e bocconi, sono stati semplici cittadini, associazioni, attivisti del territorio. Una proposta partecipata ma silenziosa, sottobanco, poco concertata, perché qui le continue emergenze hanno fagocitato ogni intenzione, ogni sforzo, ogni energia.
Perché mica puoi pretendere di investire in cultura quando c’è chi non riesce a mettere il piatto in tavola, pare quasi brutto, pure se quella stessa cultura sarebbe capace di far crescere una comunità, renderla consapevole delle proprie risorse da spendere per sé e per gli altri in un circolo virtuoso socio-economico. E pure se il vulnus educativo potrebbe curarsi addirittura in una circoscritta sala museale.
L’idea del museo non è nata per puro caso, ma innanzitutto dalle testimonianze antiche disseminate sul territorio. Quelle ben visibili, come la cosiddetta villa romana sullo spartitraffico di via Ghisleri a pochi metri dalle Vele, o quelle di cui si racconta, come i resti di tombe osche venuti alla luce, e poi rimossi o forse reinterrati, durante la costruzione del vicino carcere di Secondigliano.
Perché, ricordiamolo, se Scampia è Secondigliano, Secondigliano non è Scampia. Nessun scioglilingua pedante ma la necessità di riconoscere i legami, stretti e complessi, tra due quartieri figli della stessa terra – a cui appartengono anche Piscinola, Miano, San Pietro a Patierno, Chiaiano – ma con storie diverse, e invece insistentemente omologati per facilità di comprensione. Insomma si ignorano le peculiarità affinché il mondo intero possa capire, si etichetta per definire meglio. E intanto gli abitanti di questi luoghi vengono snaturati della propria unicità in nome del calderone informativo.
Scampia ‘abusata’
Vivo (in) questa periferia, madre di virtù e contraddizioni, che ha visto nascere progetti fittizi o a breve termine per restituire sbandierate dignità, ha visto abortire iniziative legate all’onda emotiva del “salviamo gli ultimi poiché siamo i primi”, ha visto naufragare fantascientifici programmi sulla rigenerazione urbana subordinati alle bizze della partitocrazia, ha visto dissipare finanziamenti in rivoli di startup innovative nate per dare una possibilità agli emarginati e a stento partite, ha visto compiere improbabili giri turistici sui set gomorriani con tanto di selfie dove la guida istruisce “alla vostra destra la famosa piazza di spaccio, alla vostra sinistra il luogo dell’ultimo morto ammazzato”, ha visto costruire pedane di lancio per protagonismi individuali da sfruttare in successive campagne elettorali.
Storytelling da costruire, project management da pianificare, fake news da analizzare: l’abusivismo a Scampia parte dalle parole abusate che ormai rischiano di rovinare la comprensione della realtà. E Scampia quando ha cominciato a cambiare volto perché il business illegale si è trasferito, a mostrare anche la buona umanità che lavora onestamente come d’altronde succede a Busto Arstizio o a Palermo, è rimasta ancora più sola. Non fa più audience o al massimo, restando nel modaiolo lessico anglosassone, fa marketing mediatico con le esclusive storie belle in diretta dal posto disagiato. Mentre l’idea trasgressiva del museo, già sottaciuta, si è addormentata.
Le icone cristallizzanti
C’è una foto che raffigura la scritta “dateci un museo” e una Vela sullo sfondo. Da tempo l’immagine, pur nascendo da un fatto specifico, girovaga nello spazio internettiano occupando il posto di rivendicativo grido di speranza collettiva. Assurge così a figura simbolica di rapida lettura, esplodendo nella preghiera passiva del “portateci un museo, concedete uno spazio culturale pure a noi diseredati”, condivisa a manetta sotto la spinta del “posto ergo sum” e del sentimento generalista. È la prassi digitale.
Del resto, ci siamo assuefatti all’etere vanesio che spesso nel momento in cui riconosce cose e persone universalmente, di contro poi anonimizza, cioè ne appiattisce le differenze affinché tutti possano rispecchiarsi e identificarsi. E può capitare che il social, ormai misantropo, riproponga scatti di cui ignora il contesto, ma che diventano a furor di popolo icone evocative e d’improvviso fomentano nuovi sogni. Ci sta: è la rete, bellezza. È la realtà virtuale che legittima l’alienazione.
Ci sta pure, però, che nella vita vera di periferia, quella offline, ci si possa stancare dei simboli superficiali che cristallizzano, frenano, stigmatizzano nel bene e nel male. Le Vele restano un monumento all’insipienza di quanti hanno scambiato i valori collettivi con la mancanza di rispetto per i diritti individuali. Per questo, una sola foto-icona non rende giustizia. L’assistenzialismo missionario dall’alto ha fatto danni, oggi i sogni sono falliti. È nell’intreccio di conflitti, tensioni, reti, aggregazioni, scambi, passaggi, stili, mezzi e fini, è proprio in quest’intreccio ordinario e maledettamente reale che si cela il potenziale necessario per trasformare l’esistente.
La domanda allora è: se i sogni sono falliti, quando ci sveglieremo? Quella frase “dateci il museo” è dipinta sulla barriera jersey di calcestruzzo che delimita il cantiere dell’ultima Vela abbattuta, la Verde. Era il febbraio 2020, poco prima del lockdown pandemico, e si discuteva animatamente – tra architetti, ingegneri, critici dell’arte, amministratori – se fosse giusto buttarle giù e salvare solo la più recuperabile per destinarla a uffici, se in quelle eventuali superstiti potesse trovare spazio magari un museo sulla memoria, sui ‘dannati’ delle Vele, quelli che hanno vissuto l’inferno abitativo e ancora lo vivono, se le Vele abbiano creato il degrado o il degrado abbia creato le Vele come noi oggi le conosciamo.
Qualcuno ha proposto pure un museo sulla criminalità organizzata che ha devastato il territorio, qualcun altro sull’infanzia dimenticata. Scampia ritorna a essere laboratorio antropologico di dei ex machina che salvano, di scienziati che sperimentano, di profeti che predicono, di santoni che operano miracoli. Scampia sollecita riflessioni. Ecco, ben venga la memoria, ben venga il museo che è contenitore autobiografico di un luogo e di un popolo, ben venga il non dimenticare, ma quando ricorderemo Scampia tutta, anche prima delle Vele?
E anche quella intorno alle Vele, dei quartieri limitrofi pregni di una straordinaria cronaca antica come a Marianella la casa natale di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, l’autore di Tu scendi dalle stelle, o l’ipogeo Terrasanta della chiesa dei santi Cosma e Damiano a Secondigliano che nell’adozione dei teschi ricorda il cimitero delle Fontanelle alla Sanità. E la Scampia degli antichi romani che la abitarono, e quella delle tradizioni che ancora sopravvivono nelle storie dei vecchi casali, e quella delle distese di campi coltivati dai contadini che ci hanno consegnato una natura intarsiata di luce pittrice dei tramonti tra i più belli di Napoli, poi offuscata dall’ombra del cemento.
Un museo fuori le mura
Io sotto quella Vela avrei scritto “ridateci la nostra storia”. Restituiteci la storia nascosta da una narrazione tossica post-Vele che ha portato tutti a credere – dagli stranieri agli stessi giovani del quartiere – che Scampia sia nata con la legge 167 del 1962 e con il progetto delle Vele di Franz Di Salvo. No, Scampia è il ‘mare verde’ di Piscinola, i cui tempi erano scanditi dal raccolto e dalle feste rurali, nel passato meta di scampagnate e gite fuori porta, e che oggi è una piccola oasi sconosciuta ai più che ospita una grande varietà di specie botaniche, oltre che di volativi da osservare nella villa urbana lungo viale della Resistenza.
Se a un certo punto la pianta ha dato frutti amari, forse da annaffiare sono le radici, non i rami. E le radici di Scampia, di Secondigliano, di Piscinola, di tutta la periferia nord di Napoli, quali sono? Un museo potrebbe raccontarle, insegnarle, trasmetterle. Cominciando da chi qui abita, è nato, vissuto.
Un museo che, per diventare agenzia di sviluppo locale, deve innescare un dialogo spinto che pacifichi e non provochi, che materializzi e non evochi o brandizzi. Senza tirare in ballo il rinomato ‘riscatto’, altro termine abusato, oppure la declamata ‘bellezza’, che è categoria sovrastrutturata nei processi stessi di costruzione delle conoscenze, dei giudizi e delle rappresentazioni.
Il museo è roba più concreta, è grammatica del quotidiano. È il tentativo di codificare l’istinto a conoscere l’attimo e il suo contenuto, sapendo che l’attimo non dura in eterno. In una città della cultura come Napoli, dove le famose stazioni metropolitane dell’arte sono stupende, certo, amate dai turisti e acclamate dalla critica. Un bagno nella meraviglia, sì. Ma i napoletani poi ci annegano, aspettando ore sulle banchine affollate anche in tempi di pandemia, per riuscire a prendere posto nel convoglio.
E proprio di rinomato riscatto non v’è traccia. Quella declamata bellezza non ti ristora dalla mancanza di un servizio di base, prioritario. Perché a dirla tutta, la bellezza potrebbe pure salvare il mondo, ma in certi posti ti accontenti se almeno lo migliorasse, non solo al turista estasiato, ma anche all’indigeno affannato. Il museo portavoce di chi ha perso la voce. Chissà, i nostri saggi contadini sarebbero ripartiti dalle basi, dalle radici. Dove inizia l’identità non imbalsamata dalla retorica.
Una analisi ben centrata,e non scritta di getto o di rabbia,
C’è vita anche nelle parole che potrebbero sembrare morte,ma ( ne sono certo) Scampia tornerà ad essere illuminata da un sole meno cocente,ma più illuminante….,
Lo sento,lo spero …lo auguro a chi ci abita e ci abiterà,perché dare dignità ad un territorio è la base della civiltà umana!
Bell’articolo …complimenti!
E bel commento, ricco di giusta speranza. Grazie!