“Viviamo in un’epoca mediocre. Malinconica e triste. Siamo povere creature in un mondo di cui abbiamo perso il senso. L’unica cosa che ci serve in questo pantano è una grande modestia. Non già l’umiltà, che deriva dall’arroganza di chi cerca la santità, ma una laica e necessaria modestia. Le poesie di Jannis Ritsos sono per noi lettura salvifica. Per me, lui è il più grande. Un assoluto. Io ne sono innamorato”.
Parla con voce pacata Moni Ovadia, quasi monocorde. Ma è un fiume in piena nel raccontare il ‘suo’ Ritsos, il poeta che ha già portato sulle scene nel 2012, e che rileggerà ora in La cantata della grecità per il progetto Teatri antichi nostri contemporanei di Q Academy. Da mercoledì 26 a lunedì 31 luglio vagherà per teatri antichi di mezza Italia: teatri più e meno noti passando da Baia a Ferento, a Fiesole, a Paestum, a Ostia a Grumento. Teatri dove sarà preceduto da un racconto dei luoghi curato dal Laboratorio Archeoframe dell’Università Iulm di Milano, perché i luoghi antichi vanno conosciuti oltre che vissuti. E dove si lancerà poi in un confronto serrato tra miti antichi e rilettura di Ritsos.
Come avverrà il confronto?
Assieme allo storico Luciano Canfora, ho scelto brani antichi, in particolare da Omero e dai tragici, che ritraggono personaggi come Aiace, Oreste, Elena, Achille, Agamennone. I grandi eroi: pensiamo a Elena che, dall’alto delle mura di Troia, descrive a Priamo gli eroi greci in tutta la loro maestà mitica.
A loro io accosto i versi di Ritsos che ce li mostra, invece, nella loro modestia umana, consapevoli dei loro destini. Agamennone che, stanco del comando e solo, medita sulle sue fragilità e debolezze. Oreste non baldanzoso ma smarrito di fronte all’assassinio che è chiamato a compiere. Elena non più bella e splendente ma oramai anziana, sul punto di morte: assai meno dea. L’invecchiamento mostra la nostra verità più lancinante.
E poi c’è Crisotemi, creatura umbratile e ritrosa che non ha sete di visibilità né di potere, e a cui il mito accenna solamente. Mentre Ritsos la magnifica. L’attacco è grandioso: “com’è che si sono ricordati di me?” si chiede Crisotemi. Ritsos coglie proprio il nocciolo della sua posizione: “Io non mi lamento, a me sta bene così”.
Ritsos in un certo senso demitizza il mito. Ne svela il lato debole. Ma cos’è dunque, per lei, il mito?
Ritsos prova la verità umana del mito. Per me lui stesso è un mito: mitico è l’uomo capace di tenere fede con coerenza alle proprie idee e alle proprie scelte. Ritsos sopportò la tortura senza piegarsi all’abiura. I fascisti volevano umiliarlo ma lui non lo consentì. Non fu quel che si dice un ‘uomo forte’, ma un uomo pieno di grazia. Il vero mito, in realtà, è un uomo vero. In yiddish c’è una locuzione che spiega che essere umano è colui che sa guardare all’altro e sa trovare nell’altro il proprio agire.
Mandela, Gandhi sono dei miti. Figure prodigiose che non si sono mai piegate. Non fanatici alla ricerca della bella morte, ma persone fedeli al loro impegno. Anche i nostri eroi della resistenza. Tra le lettere dei condannati a morte ce n’è una di un certo Guadagnolo che dice ai genitori “non piangete per me perché, in fondo, io affronto ora le conseguenze di una mia scelta. Vi chiedo solo una cosa: al posto mio, prendete un orfano di guerra tedesco”.
Questi sono uomini portatori di grandi lezioni per il futuro. Invece uno come Achille – per noi mito vero – che fa? È un mito finché non gli si tocca il tallone, che rivela tutta la sua fragilità. E di fronte alle situazioni più delicate, piange. Piange sul corpo di Patroclo, piange con Priamo per Ettore. Ritsos scrive: “i poveri uomini sempre presi a infilarsi forcine negli occhi, sapendo che i muri delle città non crollano. Ma proprio lì dove gli uomini resistono senza speranza, lì comincia la storia umana”.
Come definisce se stesso, un cantastorie?
Un cantastorie che raccoglie storie già raccontate da altri e dà loro una risonanza nel tempo d’oggi. Parlo molto degli ebrei ma i miei spettacoli sono per tutti gli uomini. Racconto una civiltà che, pressoché cancellata, ha la possibilità di trovare un senso attraverso le mie storie.
E non c’è in me alcun elemento nostalgico, proprio come non c’è in Ritsos. È stato lui a ispirare il film di Theo Angelopoulos La recita (1975) che traspone il mito nella tragedia della Grecia moderna.
Ritsos è stato proposto ripetutamente per il Nobel ma non l’ha mai vinto, ed è stata un infamia. Però anche in questo lui è un grande: è sempre, e rimarrà, un escluso.
Parlando di musica: quanta parte ha nello spettacolo?
È l’elemento fondante di ogni forma di rappresentazione. Non è affatto un mero accompagnamento ma parte integrante di tutto ciò che ha dimensione rappresentativa. Sulla scena non c’è distinzione tra musica, movimento, parole. Questa distinzione è nata col teatro borghese, e col tempo il teatro di prosa si è arrogato il diritto di essere il teatro tout court. Io però non l’ho mai capito, e negli ultimi anni molti stanno andando nella mia stessa direzione. Stiamo finalmente superando la supremazia della prosa per usare linguaggi più musicali, ritmici ed emozionalmente molto più affascinanti.
Nel 2015 ho messo in scena le Supplici di Eschilo al teatro antico di Siracusa: una tragedia adattata interamente in ottava rima siciliana, e tutta cantata. La musica non si fermava mai. Le professoresse paludate si sono indignate, ma il teatro non deve far solo ‘vedere’, deve far ‘sentire’. Far provare emozioni, paure, smarrimenti, perdita di coordinate per ritrovarne altre. Deve far sentire dentro.
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