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Sul promontorio di Poggio del Molino (Livorno), ai tempi dei Romani, c’era una fortezza contro i pirati poi trasformata in fattoria e infine in lussuosa villa marittima. In questo racconto, la storia di questo luogo fantastico che Archeostorie e Past in Progress hanno trasformato in PArCo, il “Parco di archeologia condivisa” dove tutti possono trascorrere il tempo libero accanto e assieme agli archeologi al lavoro. Un’idea veramente rivoluzionaria.
La Medusa di Poggio del Molino ha una storia complessa…
“Padrone, dobbiamo andare…”
“Un attimo ancora, Manio, un attimo ancora…”
Il vecchio Manio si tira su il bavero del mantello trattenendo un moto di stizza. L’umidità che sale dal mare nell’alba livida, sotto forma di foschia sottile, gli penetra le ossa e le fa scricchiolare. Ma è uno schiavo, e il suo destino è di obbedire agli ordini del padrone, anche quando sono incomprensibili e dati senza sale in zucca, come in questo caso.
Del resto, il suo padrone molto sale in zucca non l’ha mai avuto, e fiuto per gli affari men che meno. Lo conosce da quando è nato, ed è sempre stato così: un uomo non cattivo, anzi, ma inutile, e sostanzialmente inadatto ai tempi e alle circostanze.
Dolce, gentile e svagato, è sempre stato perso nelle sue fantasie e nei suoi sogni, il naso tuffato nei libri di mitologia e storia invece che nei registri dei conti. E i risultati si sono visti. Decimo Cecina Largo, ultimo erede di una schiatta che risale ai tempi degli antichi Etruschi e che solo un secolo prima, dalla villa sul promontorio, dominava il mare fino all’Elba, sta ora in piedi lì, in mezzo all’antico triclinio dei suoi avi ridotto in rovine, con addosso un mantello di lana grezza e dei calzari dozzinali degni a stento di un mendicante, in procinto di partire per l’Urbe a pietire presso un lontano cugino senatore un qualche piccolo incarico che gli consenta di sopravvivere. “La strada è lunga, Domine…”
“Hai ragione – sospira Largo, come se la sua voce provenisse da lontananze indefinite – ma non so a staccarmi da lei, salutarla… l’ho sempre considerata lo spirito di questa casa, non riesco a pensare di non vederla più. Non la trovi anche tu bellissima?”
Manio sente scorrere un brivido lungo la schiena, e stavolta l’umidità non c’entra. I suoi occhi si muovono lungo il pavimento scrostato, percorrono le crepe infinite e le chiazze di malta usate per rattoppare i pezzi di mosaico che il tempo ha rosicato e che i proprietari, Largo per ultimo, non hanno più potuto ripristinare. Infine arrivano a lei, che nella penombra fredda e oscura spicca al centro della sala: la Medusa dagli occhi azzurri e dai capelli di serpi. Il vecchio trattiene a stento il gesto farsi il segno della croce in fretta, per invocare su di sé la protezione di Cristo. Sa che il suo padrone non apprezzerebbe. Non che abbia nulla contro i cristiani: Largo è tollerante e anzi curioso nei confronti di tutte le religioni, forse perché – chiosa il servo con una punta di disprezzo – sotto sotto le considera tutte bislacche. Anche prima di lui, nella domus dei Cecina gli schiavi e i famigli hanno potuto praticare ogni genere di culto senza rischiare alcuna punizione. Persino quando, prima dell’imperatore Costantino una trentina di anni prima, l’adesione al credo cristiano era considerata un reato. Ma il tollerante e pacifico Decimo Cecina Largo non sarebbe in grado di perdonare un affronto così plateale alla sua Medusa. Manio lo ricorda bambino, rannicchiato sul pavimento, a seguire col dito i contorni delle tessere del mosaico, come se quei segni fossero strade in grado di portarlo a una superiore forma di conoscenza. Non ha mai capito la fascinazione che quel mostro ha esercitato sulla famiglia dei suoi padroni. Forse – si dice – è dovuto alla loro origine etrusca, perché gli antichi Tirreni credevano in una religione oscura, in cui i demoni metà uomini e metà fiere erano i signori della natura e del cosmo, della vita e della morte. Ma a lui quella figura è sempre sembrata un rigurgito d’inferno, un alito del demonio che corrompeva coi suoi miasmi l’aria di quella casa.
“Tu la odi, lo so” sussurra Largo improvvisamente, con la voce di chi deve fare fronte a una sconfitta.
“Padrone, io…”
“No, ti capisco, tu credi nel tuo dio, e io alle volte invidio la tua fede… Sai, io penso che proprio per questo gli dei dell’Olimpo non abbiano resistito all’arrivo del tuo Cristo: erano così pallidi, lontani, chiusi nei loro templi di marmo, distanti dalla vita. Evanescenti, un po’ come me. Ma non lei. Lei non ha nulla di distaccato e lontano. Lei è una divinità, certo, ma di carne e sangue: è una dea sporca di vita.
Sai come è diventata dea, nelle leggende? Perché prima era una mortale come noi. Ma un giorno Poseidone, che la desiderava per la sua bellezza, la sorprese a pregare sola nel tempio di Atena e, incurante del luogo sacro, la violentò. Atena, invece di correre in soccorso alla poveretta, che fece? si offese e trasformò Medusa in un mostro con i capelli di serpi!”
Largo scuote la testa, sospirando: “Capisci perché non ci si può fidare degli Olimpi, perché abbiamo smesso di credere in loro? Perché sono così: capricciosi, ingiusti… Ma non Medusa, no! Lei ha sofferto e conosce l’ingiustizia e l’abiezione, umane e divine. Per questo è la guardiana ideale di una casa: perché solo chi conosce il male, Manio, può intuirlo e batterlo!” “Padrone…”
“Ci ha sempre protetto, sai? All’inizio questa non era una villa marittima destinata agli ozi. Era una fattoria dove i miei antenati producevano il garum per condire i cibi. I Cecina mischiavano nelle vasche le interiora di pesce fermentato… Anche gli antenati del nobile senatore che andremo a trovare a Roma, eh! Poi quando, un paio di secoli fa, vollero accreditarsi come gran signori dalla vita aristocratica – e soprattutto produrre garum in Italia non fu più conveniente perché quello spagnolo costava molto meno – decisero di trasformare la fattoria in una villa sul mare. Dagli torto! Dove si trova un altro poggio così, a picco sul mare? La vista che si estende fino alla Corsica, il golfo a sud, il lago costiero a nord… Allora trasformarono le vasche per il pesce in terme sontuose, piene di marmi. Eppure, ti giuro, sarà stata la suggestione, ma fin da piccolo, quando l’ho scoperto, mi è sempre sembrato di sentire ancora aleggiare il puzzo di pesce marcio dentro i locali delle terme, quasi fosse rimasto come un alito fantasma a ricordare il passato.”Manio scuote la testa: “Padrone, i fantasmi non c’entrano, è che dai tempi di tuo nonno non abbiamo più avuto i soldi per pulire le tubature…”
Largo scoppia a ridere: “Sì, hai ragione, che stupido! Sai, è stato quando questo posto è diventato una villa che qui, nel triclinio, i miei avi hanno voluto il mosaico di Medusa. È sempre stata con noi, testimone dei tempi ormai lontani in cui eravamo ricchi, e testimone della nostra rovina. Le vedi queste crepe? Sono i segni di un terremoto di quasi un secolo fa. Venne giù mezza casa, di botto, e non riuscimmo più a riportarla all’antico splendore. Da allora è cominciato il declino. Piano piano, anno dopo anno, quasi senza accorgercene. Le rendite venivano meno, e anche le forze di famiglia. Un tempo eravamo commercianti sagaci e spregiudicati, e forse prima chissà, temibili pirati etruschi. Poi lentamente siamo diventati come me: pacifici, posati, imbelli. Lo so, Manio, che tu mi ritieni un imbecille, un essere inutile che non è riuscito a risollevare le sorti della sua famiglia e della sua casa. Forse hai ragione. Io non sono capace di farlo, non ho né tempra né ingegno. Il potere e la ricchezza vanno agli audaci, e io non faccio parte della categoria. Non ho più niente, nemmeno la stima di un vecchio schiavo che se viene con me è per obbligo, non per affetto. Mi è rimasta solo lei, la mia Medusa. Ha accompagnato tutta la nostra storia, è rimasta salda attraverso i secoli, non ha ceduto alle guerre, alle rivolte, nemmeno ai terremoti. È stata la miglior guardiana che potessimo scegliere. Tu vedi nei suoi occhi azzurri uno sguardo di minaccia, io ci ho sempre scorto, invece, un empito di protezione. Come se lei, che ha tanto sofferto, volesse proteggere dalle sofferenze noi. Per questo mi piange il cuore a lasciarla qui, per sempre. Non posso.””Ma non ti puoi portare dietro un mosaico, Domine!” sbotta Manio, esasperato.
Largo sorride: “Lo so, sono pazzo, ma non fino a questo punto. Ce ne porteremo via un pezzettino. Una tessera perché ci protegga nel cammino e tenga lontano da noi i pericoli, lungo la via e anche quando saremo a Roma!”
Si china, toglie con le unghie una piccola tessera vitrea dagli occhi di Medusa, la alza per intercettare il brillio di un raggio di sole, e poi la chiude nel pugno, come un talismano.
“Ecco, possiamo andare. A Roma, per sempre.”
Il vecchio Manio scuote la testa, segnandosi in fretta, di nascosto.
Oggi Poggio del Molino ha ripreso vita e tutti lo possono frequentare e ammirare, condividendo l’avventura degli archeologi al lavoro. Infatti è diventato PArCo, cioè Parco di archeologia condivisa. Non sapete che cos’è? Guardate questo video che lo spiega in sintesi:
Storica infiltrata fra gli archeologi, blogger e insegnante, frequenta le aule scolastiche per mestiere e il web per passione. Ama la divulgazione storica, e scrive perché per comunicare il passato nulla funziona meglio di una storia ben raccontata.
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