Roma, Foro, 15 febbraio 44 a.C.
Fabia tremava nel suo mantello nuovo.
Era caldo e morbidissimo, di un giallo brillante, impreziosito da disegni floreali lungo l’orlo: un regalo di sua madre per dimostrarle il suo affetto e il suo sostegno in quella giornata importante.
Non che questo bastasse a farla sentire coraggiosa.
Se lo strinse addosso, senza distogliere lo sguardo dalla via Sacra. La folla rumoreggiava impaziente. I Luperci erano attesi da un momento all’altro.
Tra loro c’erano anche due cugini di Fabia, un onore di cui suo padre amava vantarsi con gli amici e i conoscenti. La gloria della gens per lui veniva al primo posto. “Un rito più antico di Roma stessa – usava dire a proposito dei Lupercali – e i Fabii erano già qui.”
L’anno prima, Fabia aveva temuto che gli venisse un infarto quando si era saputo che Giulio Cesare intendeva istituire i Luperci Iuliani in onore della propria gens. Un affronto che il nobile Fabio aveva faticato a digerire.
E probabilmente non l’avrebbe digerito mai, considerò Fabia, sbirciandolo di nascosto. L’espressione di suo padre era inequivocabile. In spregio a ogni considerazione di prudenza, stava fissando Giulio Cesare, seduto sulla tribuna dei Rostri per assistere comodamente alla corsa dei Luperci, con una smorfia di inequivocabile disgusto.
La stessa che riservava a sua figlia, da quando l’assenza di nipotini aveva cominciato a farsi sospetta.
“Eccoli, eccoli!” urlò qualcuno, e la folla si mosse come un solo uomo, urlando e incitando i corridori prima ancora di vederli comparire.
Fabia strinse le mani sudate nel mantello, lottando contro l’istinto di arretrare e nascondersi tra la gente. Due giovani seminudi correvano dritti nella sua direzione, ridendo, urlando volgarità, frustando l’aria con una lunga striscia di pelle di capra maculata. Sembravano demoni appena usciti da uno spettacolo teatrale.
Fabia cominciò a battere i denti. Nonostante il vento freddo, stava sudando così tanto che sentiva la tunica appiccicata alla schiena.
Due mani inesorabili le strinsero le spalle e la spinsero in prima fila: “Di qua! Venite di qua! C’è una femmina sterile!”
La voce stentorea di suo padre sovrastò le grida e il frastuono.
Gli spettatori più vicini fecero largo intorno a loro, lasciandoli soli di fronte ai Luperci che si avvicinavano di corsa. Fabia ebbe l’impressione che tutti la stessero fissando, chi con repulsione, chi con scherno, chi con una pietà mescolata al sollievo di non essere al posto suo e di suo padre.
Gli uomini ridevano forte, facevano battute. Le donne la osservavano di sfuggita e subito volgevano lo sguardo altrove. Alcune popolane si misero a commentare ad alta voce, approfittando della festa e della confusione che permettevano di smussare un po’ le barriere sociali.
Fabia si strinse il mantello sul petto a mo’ di scudo, ma suo padre glielo strappò via senza tante cerimonie, incurante della stoffa pregiata e degli sguardi avidi della folla. I due Luperci erano sempre più vicini. Adesso Fabia poteva vedere la loro pelle unta d’olio, i piedi sporchi di fango e di polvere, gli occhi arrossati per il vino. Le sfuggì un mugolio di terrore.
Il più vecchio dei due, un uomo alto e robusto con una testa arruffata di riccioli scuri, le spalle larghe e il petto muscoloso di un combattente allenato, superò il compagno d’un salto, le si fece incontro, alzò la frusta con una risata gioviale…
Fabia rimase immobile, inerme, col respiro bloccato in gola. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, ma non ci riusciva.
La pelle di capra frustò l’aria sibilando, svolazzò al vento, le sfiorò il ventre in una lievissima carezza.
Dalla folla si levò un mormorio deluso. Fabia alzò gli occhi e si trovò davanti un viso largo e amichevole, annerito dal fango. Solo allora, sbalordita, riconobbe Marco Antonio, fedelissimo di Cesare e console in carica, che le sorrideva col fare di un vecchio amico.
Antonio le strizzò l’occhio e balzò via, verso le tribune, dove i suoi compagni stavano omaggiando il dittatore.
Fabia non si mosse, ancora incredula. Lanciò un’occhiata in tralice a suo padre. La bocca sottile aveva assunto la piega sprezzante che gli era tipica quando constatava la decadenza dell’odierna repubblica, ma non sembrava arrabbiato né deluso: aveva avuto quello che voleva.
Fabia sospirò di sollievo. Si tamponò il sudore dal viso e raddrizzò le spalle. Ancora poco e sarebbe potuta tornare a casa a godersi un bagno ristoratore, un massaggio e una tazza di vino caldo, per riprendere forze e colore prima che suo marito rincasasse. Anche lui, come il suocero, aveva fretta di procurarsi un erede.
Se solo potessi vivere in pace, senza la tutela di un uomo, pensò, attenta a non lasciar trasparire quel desiderio colpevole sulla maschera inespressiva del viso. Starei benissimo, da sola con le mie ancelle. Libere di parlare senza misurare le parole, di ridere senza coprirci la bocca con la palla, di scherzare senza offendere l’orgoglio dei maschi di casa. Libere di vivere senza paura.
Un clamore improvviso la strappò da quei pensieri sacrileghi.
Antonio si era fatto sollevare dai compagni per offrire un serto d’alloro a Giulio Cesare, sulle tribune, ma il dittatore non sembrava compiaciuto. Al contrario, aveva la stessa espressione del padre di Fabia quando stava per mettersi a urlare.
Respinse più volte l’alloro, cercando di sottrarsi all’insistenza del collega; la folla applaudiva e inneggiava al suo nome a ogni rifiuto. A un certo punto di quel tira e molla, come Fabia aveva previsto, Cesare perse la pazienza. Si alzò dal suo scranno d’oro, statuario nella toga rossa da trionfatore, e scaraventò via la corona d’alloro con un gesto stizzito. Solo allora Fabia si accorse del diadema che scintillava nascosto tra le foglie.
Il Foro intero sprofondò nel silenzio. Cesare fece scorrere sul pubblico uno sguardo fosco, come sfidando chiunque a offrirgli altri doni sgraditi. Poi si allentò la toga scoprendo la gola e urlò a pieni polmoni: “Roma non ha re né padroni, all’infuori di Giove! Io sono soltanto Cesare! E se qualcuno vuole la mia vita, venga pure a prendersela!”
Uno scoppio fragoroso di urla e applausi fece tremare le tribune.
“Buffone!” sbottò il padre di Fabia, senza preoccuparsi di tenere bassa la voce. “Commediante! Fa una bella coppia con quell’altro cialtrone di Antonio! Bella recita, sì, davvero. Bah! Andiamocene a casa.”
Fabia si alzò sulle punte dei piedi per guardare oltre le teste della gente. Antonio non sembrava offeso dal rifiuto di Cesare: era appoggiato alle tribune come se si trovasse al circo anziché officiare un rito sacro, e conversava con gli amici senza perdere il suo largo sorriso, perfettamente a suo agio nel gonnellino di pelle di capra.
“Vieni via, muoviti!” intimò Fabio, strattonando la figlia per farla camminare. “Ci manca solo che qualche pettegolo ti veda occhieggiare un console mezzo nudo! A vent’anni e senza figli, non ti resta altro che il tuo buon nome. Se ti fai ripudiare non troverai nessun altro disposto a sposarti!”
Magari, pensò Fabia. I tempi non erano ancora maturi per dirlo a voce alta.
Ma quei tempi arriveranno, prima o poi, e io sarò pronta.
Facendosi coraggio, sollevò la testa e fendette la folla a mento alto, sfidando gli sguardi dei curiosi. Non avrebbe abbassato gli occhi mai più.
A metà febbraio nella Roma antica si celebravano i Lupercali, un insieme di riti in onore del dio Luperco. Era una festa antichissima, legata alle origini della città: protagonisti dei festeggiamenti erano i cosiddetti Luperci, che venivano scelti tra gli esponenti di due famiglie, la gens Quintilia e la gens Fabia. Dopo un sacrificio svolto nel Lupercale (la grotta in cui, secondo la tradizione, la lupa aveva allattato Romolo e Remo), i Luperci correvano per la città colpendo con strisce di pelle di capra le donne che desideravano assicurarsi la fertilità.
I Lupercali del 44 a.C. fecero scalpore per un gesto di Marco Antonio, console e Luperco per quell’anno, che tentò di incoronare Cesare sulla tribuna dei Rostri, nel Foro. Ma Cesare gettò via il diadema, suscitando l’entusiasmo della folla.
È convinzione diffusa che non si sia trattato di un colpo di testa di Antonio, ma di una messinscena organizzata da Cesare stesso per respingere l’accusa di aspirare a un potere regale.
Se così fu, la recita non ebbe successo: solo un mese più tardi il dittatore verrà assassinato con ventitrè pugnalate nel bel mezzo della Curia.
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