Sei milioni di tappi di plastica recuperati dal mare, imprigionati in gabbie metalliche che formano un enorme e inquietante ‘reperto archeologico’ della nostra epoca. Una sorta di monumentale grido di aiuto di un periodo storico che rischia di essere soffocato dai rifiuti. HELP the Ocean, l’installazione di arte moderna di Maria Cristina Finucci presente dall’8 giugno a Roma, sopra i resti della Basilica Giulia al Foro Romano, anche se non fa parte delle manifestazioni correlate alla Plastic Free Week, la ‘settimana senza plastica’ organizzata dal 3 all’8 luglio da Greenpeace in 16 città italiane, è una tappa da non perdere.
Cos’è HELP the Ocean
HELP è stata inaugurata lo scorso 8 giugno, in occasione della Giornata mondiale degli oceani. L’installazione, realizzata grazie all’importante sostegno di Fondazione Bracco, è approdata a Roma dopo essere stata già proposta dall’artista nel 2016 nell’area archeologica di Mozia (TP). Fa parte del ciclo dedicato dalla Finucci al Garbage Patch State, lo stato federale riconosciuto dall’Unesco l’11 aprile 2013 e formato da 5 grandi isole che coprono la superficie di 16 milioni di km quadrati e sono formate interamente di rifiuti plastici. Il riconoscimento di queste isole di spazzatura come un vero e proprio stato è una decisione caldeggiata da numerosi artisti internazionali, fra cui anche la Finucci, proprio per far emergere e conoscere al grande pubblico il gravissimo problema dell’inquinamento degli oceani.
Un ‘dialogo’ tra arte moderna e archeologia sulla cultura materiale del XXI secolo
HELP non è solo un modo per invitare la gente a meditare sui danni dell’inquinamento. È anche un tentativo ben riuscito di dialogo tra arte moderna e archeologia, spesso considerato arbitrario, un vezzo inutile, una trovata pubblicitaria.
L’opera invece chiarisce che la plastica può essere letta e interpretata come il ‘fossile guida’ della nostra epoca, costituire il materiale che identifica perfettamente la nostra civiltà, come le antiche ceramiche facevano per le culture antiche.
Infatti, se l‘archeologia studia la cultura materiale dei popoli, cioè ricostruisce la storia delle persone e delle popolazioni attraverso le cose che quelle persone hanno prodotto, costruito, usato nella propria vita di tutti i giorni, quale materiale migliore della plastica, la protagonista indiscussa delle nostre vite dal secondo dopoguerra a oggi, può raccontare il periodo a cavallo tra XX e XXI secolo? Quale materiale migliore della plastica racconta le nostre vite e le nostre storie?
Diamo i numeri (di plastica)
Le cose, gli oggetti che ci circondano e che sono fatti di plastica sono tantissimi e ormai nemmeno ce ne accorgiamo: dalle ciotole per l’insalata ai piatti da pic nic, dal computer al cellulare, dai componenti dell’automobile ai complementi d’arredo del nostro salotto, dalla penna biro, con cui prendiamo gli appunti, agli abiti che indossiamo. Durevole, resistente, leggera, economica, plastica è ovunque, ci descrive.
Giusto per fornire qualche dato, ricordiamo per esempio che nel mondo la produzione del più importante derivato del petrolio è passata da 15 milioni di tonnellate nel 1964 a oltre 310 milioni di tonnellate nel 2018 (dati WWF). Di queste, solo una parte viene raccolta e riciclata: secondo una ricerca recentissima dell’Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, questa sorte ‘virtuosa’ capita appena al 15% delle plastiche. Il 25% viene invece bruciato nei termovalorizzatori, mentre il restante 60% finisce in discarica o viene disperso nell’ambiente.
Così, negli oceani, secondo l’Unep, cioè il programma ambientale delle Nazioni Unite, finiscono ogni anno, dalle spiagge e attraverso i fiumi, oltre 8 milioni di tonnellate di plastiche e microplastiche (frammenti più piccoli di 5 mm). Solo nel Mare Nostrum finiscono 731 tonnellate di plastica al giorno, principlamente a causa della cattiva gestione dei rifiuti da parte dei paesi che vi si affacciano. Nella classifica dei maggiori inquinatori, il Bel Paese è terzo con 90 tonnellate quotidiane, dopo Turchia (144) e Spagna (125).
E mentre gli oggetti realizzati dai nostri antenati non facevano male a nessuno quando diventavano spazzatura o finivano nel fondo del mare dopo un naufragio, specialmente il vetro o la ceramica, rimanendo inerti per secoli, le microplastiche stanno invece diventando parte della catena alimentare: a detta dell’Ispra, cioè l’Istituto per la protezione e la ricerca ambientale, col 18% del pesce che finisce sulle nostre tavole potrebbe contenere microplastiche.
Con dati come questi, ecco perché da qualche tempo quello della riduzione e gestione della plastica è un tema non caldo ma bollente, che va affrontato immediatamente se non vogliamo che nel 2050 vi siano negli oceani più frammenti di plastica che pesci, come ricorda lo studio della dalla fondazione Ellen MacArthur realizzato assieme al centro studi McKinsey e presentato al Forum economico di Davos nel 2016. Ecco perché le iniziative si stanno moltiplicando ed ecco perché anche l’archeologia, attraverso installazioni come HELP, è chiamata a far comprendere meglio la situazione.
Lo scopo di HELP the Ocean è dunque mettere in relazione passato e presente, riflettere sulla nostra cultura materiale. È proprio questo quello che vogliamo lasciare ai posteri? Cumuli di plastica da ammonticchiare nelle teche dei futuri musei?
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