Ai lettori che lo conoscono farà piacere ricordarlo, a quelli che ancora non lo conoscono, questa storia potrà essere uno stimolo a scoprire Giulio Angioni. Io l’ho incontrato molto tempo fa come studioso di antropologia; ero in Sardegna e stavo cercando spunti per una storia da filmare in una terra ricchissima di reperti, di racconti e di miti. Giulio mi parlò della Sardegna con un amore smisurato, inconfessabile, con una capacità rara quanto preziosa di elevare l’archeologia a racconto dell’uomo.
Fu un colpo di fulmine. Uscimmo a fare due passi e dalla rocca di Cagliari si finisce sempre per affacciarsi sul mare, da tutte le parti il mare, l’icona eterna dell’incertezza. Si, perché il mare è una domanda, ti perseguita e ti fa arrovellare su come sarà altrove. Non mente, il mare, te lo dice subito, chiaro e tondo, per attraversarlo occorre più fantasia che coraggio.
‘Altrove’ (come il titolo del Festival che si terrà a Guasila dal 26 al 28 ottobre, quest’anno dedicato proprio ad Angioni) è una parola che usava sempre Giulio, si usa meno nell’italiano corrente, significa fuggire dalla banalità e dal già detto ed è un parente stretto di ‘emozione’ che in latino era ex movere: smuovere l’anima per portarla fuori dall’abitudinario, verso la felicità, attraverso l’inatteso e l’ignoto.
Giulio Angioni minatore dell’anima
Mi resi conto di avere davanti un minatore dell’anima, uno che sparisce inghiottito da un ascensore senza fine che lo porta giù giù dove nascono le storie e i miti dell’uomo, fino alle sorgenti dei bisogni più intimi e inconfessabili. E lì scava, scava, scava fino a respirare a fatica pur di portare in superficie la materia prima della nostra energia vitale, “quella di cui son fatti i sogni” direbbe Shakespeare.
Giulio era un uomo colto, posato, dalle lunghe pause che lasciavano chiaramente intendere che la frase successiva sarebbe stata filtrata attraverso i secoli che si dimenavano all’interno della sua testa. Masticava i suoi pensieri così tanto che li serviva digeribili e leggeri. Ostinato nel voler esistere attraverso le storie che aveva già raccontato o che ancora giravano nella sua mente senza trovare l’uscita.
L’aspetto esteriore non era quello di un possente vulcano, ma dalla sua conversazione uscivano come lava spunti che sarebbero rimasti nella mia testa, a giocare con i miei pensieri e a cambiarne il corso molte volte. Mi sono sorpreso nel vedere come il suo volto scavato e modellato dal vento e dalla storia dell’uomo fosse come le pietre della sua Sardegna. Quando quel giorno ci salutammo, volle che tornassimo all’università e mi diede una copia del suo libro appena uscito: Le fiamme di Toledo.
Le fiamme di Toledo
Il romanzo racconta degli ultimi giorni di Sigismondo Arquer, magistrato cagliaritano, processato, condannato e poi arso sul rogo dell’inquisizione che affronta, nel buio della sua cella, l’assalto dei ricordi della sua Cagliari: solo passato di un futuro per lui spento. I ricordi sono subdoli, entrano e si arrampicano fino a invadere le strade della mente: anche se possono toglierti il futuro, nessuno potrà mai toglierti i ricordi. Se il futuro ti riserva il fuoco, allora è giusto rifugiarsi nel vento odoroso di timo e di passato che spira nel Castello di Cagliari.
Mi ero fatta l’idea che Sigismondo fosse in realtà un attore nelle mani di Giulio, il quale volesse rappresentare se stesso. Così, mentre leggevo, immaginavo, creavo immagini mentali delle facciate dei palazzi nobili come fossero inquadrate dal basso, esattamente come le si vede mentre si arranca per le rapide ascese che le fanno assomigliare ai panni stesi al sole che si incontrano in tutti i vicoli del Castello.
Panni stesi: funamboli di civiltà
I panni stesi sono simboli nel nostro sud, non capisco perché li si tratti sempre come segno di povertà e di arretratezza. Sono segni di una cosmologia. Rappresentazioni filosofiche. La loro vita incontra periodicamente il peccatore e costantemente la purificazione in un ciclo che va dal corpo all’anima: dal sapone al vento, strizzati a fatica per poi starsene a godere il sole.
Sarà per questo che i panni stesi mi attraggono sempre così tanto quando passeggio per i vicoli del sud. Sono opere, i panni, rappresentano, ondeggiando su un filo, un nucleo sociale in azione, vi dicono tutto: lo stato, il lavoro, la scuola, se una famiglia è numerosa, il sesso. Sono racconti di vita esposti al pubblico più che al sole e al vento, esposti senza ritegno anche nei dettagli che le convenzioni sociali nascondono. Con i panni stesi si è a nudo, senza segreti. Informano sulla tavola, sui letti, rappresentano una vita appesa a un filo. Pensateci bene, i panni sono i funamboli della nostra civiltà.
Da una finestra all’altra, disegnano schemi di convivenza e di condivisione senza avere leggi scritte. Sono come bandiere senza confini, connessioni dirette tra gruppi sociali attivi. Dialogo, una rete nata molto prima della rete. Sono una lezione sulla parità di genere, indicano chiaramente e con orgoglio una diversità assoluta che è poi quella che dà la vita, e pariteticamente sono coscienti di dipendere tutti dalla stessa molletta. Gli uomini dovrebbero mettersi nei panni dei panni, ogni tanto. Chi ha inventato le asciugatrici nega al passante la condivisione della propria storia. Spero non spariscano mai, spero che i condomini capiscano che si tratta di social media di alto profilo intellettuale.
Un’eresia d’oggi
Così mi venne un’idea: proposi a Giulio un’eresia nella certezza, questa volta, di non essere inquisiti. Fare l’attore per me interpretando se stesso: uno scrittore nato e cresciuto in quei vicoli che raccontasse le proprie esperienze formative e il proprio rapporto con il rione, col mare aperto, col tempo remoto. Provare a riconoscere quei luoghi come fosse la prima volta, ritrovare il genio, la ninfa, il dio a cui devi badare per non essere sopraffatto. Null’altro che questo.
“I posteri leggeranno il mio amore” diceva Arquer, ignaro che quelle pietre che avevano forgiato il suo carattere, quattro secoli più tardi avrebbero scolpito quello di Giulio che avrebbe ripercorso i suoi stessi passi riportandolo in vita da Toledo a Cagliari. Avrei usato come alter ego alla sua storia personale proprio quella di Sigismondo Arquer, reinterpretando e riscrivendo ‘in libertà’ le parole del suo libro e affidandole a un bravo attore che sarebbe diventato l’Arquer di Giulio, non quello dei libri di storia. Dialogo e contrappunto, un limbo sospeso a metà tra la prosa dell’autore e l’autobiografia che vedevo nascosta nel suo romanzo.
Frammenti di realtà
Volevo mostrare ciò che può essere invisibile agli occhi, ma non alla immaginazione. Avevo tutto, mi mancava di convincere Cagliari a farsi ricostruire. Il Castello di Cagliari ha una struttura architettonica che sembra uno scavo a cielo aperto: chiunque sia passato di lì, compresa la guerra ha lasciato e qualche volta inflitto segni indelebili. È magico il castello, ve lo dico io che cagliaritano non sono, basta avvicinarsi al bordo esterno del borgo per vedere riprodotta in piccolo l’idea di isola. Il cielo si incontra col mare a ribadire che esiste un altrove.
Ma se lo avessi filmato e basta sarebbe stato l’ambiente di Giulio scrittore e professore, e non quello del minatore. No, Cagliari andava ricostruita rimescolando frammenti rubati a diventare un collage, un luogo inesistente fatto di piccole tessere a mosaico prese dalla realtà.
La Cattedrale ospita una popolazione di sculture: santi in atteggiamento estatico, grandi di Spagna in abito nobiliare e posa altezzosa. Me li sono immaginati come volti dei personaggi del libro. Guardandoli dal basso, a volte guardano fisso negli occhi chi si avvicina, a volte volgono lo sguardo altrove, scansano la possibilità di essere giudicati dai posteri. Sono sguardi di pietra, sono l’impronta della dominazione spagnola sull’isola e sul rione che ho voluto portare fuori della cattedrale a ripopolare i luoghi della loro vita prima della pietra.
Sono la scenografia ideale in cui ambientare i miei due personaggi: un Arquer rubato a Giulio e un Giulio rubato ad Arquer. Avvolti da una tela immaginaria, un sudario di frammenti di storia e non un fondale in cui si recita. Un luogo irreale, ma vero, dentro il quale muoversi tra palazzi che si esauriscono nella sola facciata diventando schermi per le parole di un libro che diventa a sua volta immagine.
Così dovete leggere l’esperimento. Nulla di quello che si vede è come sembra, nulla è vicino alla realtà delle cose. Tutto è assolutamente vero.
Il video realizzato da Aldo Di Russo a Cagliari, starring Giulio Angioni e Sigismondo Arquer, s’intitolola Lampadas. Eccolo:
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