Un massiccio roccioso che si erge nel Sahara.
Nella roccia, grotte dalle ampie pareti.
Sulle pareti, centinaia e centinaia di dipinti.
Questa è l’ambientazione della nostra storia: una storia che parla del passato, del presente, e di come la ricerca scientifica possa farsi ponte tra i due mondi. Siamo nel Nord Africa, in Egitto. Il massiccio roccioso è il Gilf Kebir (in italiano ‘la grande barriera’), situato nell’estremo angolo sud-occidentale del paese, e i dipinti sono quelli del complesso di arte rupestre di Wadi Sura (in italiano ‘la valle delle immagini’), nelle grotte alla base del massiccio.
Grotte e dipinti furono scoperti a partire dagli anni Trenta del Novecento e divennero subito famosi perché spettacolari, con le loro figure umane stilizzate, i molti animali (per lo più bovini, ma anche alcuni caprini) e le tantissime impronte di mani e piedi. Così famosi che in una di queste grotte, la Grotta dei Nuotatori, sono state ambientate alcune scene del romanzo Il paziente inglese di Michael Ondaatje e, nel 1996, è diventata il set dell’omonomo film diretto da Anthony Minghella.
Un grande progetto per il Gilf Kebir
Non sempre accade che un sito archeologico, per quanto importante, sia anche adeguatamente protetto e indagato, ma il complesso del Gilf Kebir è da questo punto di vista un luogo fortunato: dal 2010 al 2013, infatti, un progetto di cooperazione internazionale tra Italia ed Egitto (Programma Ambientale di Cooperazione Italo-Egiziana) ha avuto trai suoi obiettivi proprio la salvaguardia e lo studio delle eccezionali pitture del Gilf Kebir. I lavori del Gilf Kebir Archaeological and Conservation Project, diretto da Barbara E. Barich dell’Università di Roma La Sapienza, si sono concentrati sul restauro della Grotta dei Nuotatori che era quella che versava in condizioni peggiori e necessitava di un intervento immediato affinché la lettura delle antiche immagini non venisse definitivamente compromessa dal tempo.
Ma questo è solo l’inizio della storia, le cui ricadute scientifiche, recentemente pubblicate in un articolo sulla rivista African Archaeological Review, si sono spinte molto più in là e hanno portato a delle importanti scoperte. Ne abbiamo parlato con l’archeologo Giulio Lucarini, esperto di preistoria del Sahara e della costa africana del Mediterraneo, e oggi ricercatore presso l’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (ISPC) del C.N.R. e docente di Preistoria e Protostoria presso l’Università degli studi di Napoli L’Orientale. Giulio ha fatto parte dell’équipe internazionale che ha lavorato nel Gilf Kebir e l’articolo che è stato appena pubblicato, è, di fatto, un bellissimo esempio di cooperazione scientifica tra ricercatori delle due sponde del Mediterraneo.
“Durante il lavoro di restauro della Grotta dei Nuotatori – racconta Lucarini – l’équipe di ricerca ha anche eseguito uno scavo all’interno della grotta e una serie di campionamenti geologici, più ad ampio raggio, dei sedimenti e delle rocce che si trovavano nell’area”. Proprio questi dati sulla geologia del territorio, raccolti dal geologo Mohamed Hamdan dell’Università del Cairo, hanno consentito di scrivere oggi un nuovo capitolo della storia delle grotte di Wadi Sura e dei gruppi umani che ne decorarono le pareti con centinaia di dipinti. Si è capito infatti dove i pittori del Gilf Kebir si procuravano i pigmenti.
Un lavoro da investigatori
Le eccezionali figure umane e animali e le numerose impronte di mani sono dipinte con colori che vanno dal bianco, al giallo, a diverse tonalità di rosso e di verde, con alcune presenze di nero. Si sa che furono realizzate da gruppi nomadi che basavano la loro sussistenza sulla caccia e la raccolta prima, e sulla pastorizia poi, e che in massicci come quello del Gilf Kebir trovavano rifugio, soprattutto nelle fasi climatiche in cui vi era minore disponibilità di acqua. Ma, per l’appunto, con quali materiali furono dipinte queste scene?
È una domanda a cui l’archeologia può rispondere combinandosi con la geologia, comparando la composizione dei pigmenti con quella delle rocce dalle quali si suppone che siano ricavati. “Una domanda però – spiega Lucarini – a cui è difficile rispondere in Egitto, dove i campionamenti di pigmenti dai siti archeologici non sono consentiti”. Ma in questo caso Hamdan, Lucarini e colleghi hanno avuto fortuna. E fiuto investigativo.
Grazie al confronto con i dati pubblicati in un precedente articolo di colleghi dell’Università di Antwerp, in Belgio, in cui si riportava la composizione dei pigmenti di una grotta vicina, la cosiddetta New Cave, il gruppo italo-egiziano ha potuto comparare i risultati delle analisi effettuate su quei pigmenti con quelli delle materie prime raccolte durante il loro campionamento geologico.
Una scoperta tira l’altra
I risultati sono stati sorprendenti: “tra i campioni geologici – rivela Lucarini – c’erano tutte le possibili componenti dei colori utilizzati per i dipinti. Sebbene dunque fosse affascinante e suggestivo pensare che le materie prime utilizzate per i colori venissero portate da molto lontano, lo studio ha invece rivelato che si trattava di pigmenti naturali locali”.
Proprio questo dato, che a prima vista può sembrare meno eccezionale o eclatante, ha consentito agli autori dello studio di fare un ulteriore passo nella comprensione dell’arte rupestre del Gilf Kebir: e se i pittori avessero scelto quelle pareti di roccia proprio perché, oltre ad avere una conformazione adatta a ospitare i dipinti, si trovavano vicine alle rocce da cui ricavavano il colore?
Del resto, anche se le pitture rupestri abbondano nel Gilf Kebir, la maggior concentrazione si trova proprio in corrispondenza della zona a nord-occidentale del massiccio, dove le componenti geologiche sono pienamente compatibili con la composizione dei pigmenti.
In quella zona, poi, le superfici naturalmente esposte delle grotte sono molto porose, e formano perciò un substrato ideale per ospitare la pittura che, infatti, non ha bisogno di leganti organici. Ma lo studio ha rivelato un ulteriore dettaglio delle tecniche utilizzate dagli artisti preistorici: prima di dipingere, stendevano sulle pareti un sottilissimo strato di bianco (caolinite). Così la roccia era pronta a ospitare i disegni in tutte le loro sfumature.
Ricordo di un amico
Una delle grotte del Gilf Kebir, la Grotta delle Bestie, è stata scoperta nel 2002 da Massimo Foggini, appassionato esploratore dell’Africa scomparso lo scorso gennaio. Gli autori dello studio qui raccontato, che hanno condiviso con lui l’esperienza di ricerca nel Gilf Kebir, lo ricordano con affetto.
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