1. Distruzione
Quando la mattina del 7 settembre alle 7.57, come tutte le mattine, ho acceso il telefono, invece di iniziare a cancellare in serie le solite mail inutili che si accumulano nelle ore notturne, per prima cosa ho aperto una notifica di whatsapp. Il messaggio era tanto laconico quanto brutale: “hanno incendiato la copertura della villa di Faragola”.
Pochi minuti dopo, mentre arrivavano le prime immagini di quello che, fra lamiere fumanti e strisce di fuoco, sembrava il luogo di un disastro aereo più che un sito archeologico, ho definitivamente realizzato quanto era successo.
Le parole spesso lasciano spazio alla speranza (che sia tutto uno scherzo? una notizia infondata? un’esagerazione?). Le immagini no. Immediatamente ho chiuso gli occhi e mentre, almeno per un attimo, violenza e devastazione dissolvevano al nero, in quel buio altre immagini hanno iniziato a formarsi nella mia testa, quelle di una distruzione molto, molto più antica. Rivedevo un altro sito, il mio primo scavo in assoluto, quello di San Giusto, indagato nel lontano 1995, non troppo distante da Faragola. Un’altra eccezionale testimonianza di un territorio, quello del foggiano, che nasconde luoghi e siti straordinari.
San Giusto era un vicus con uno straordinario esempio di chiesa doppia, clamorosamente isolato in un deserto di colline che degradano verso il Subappennino.
Intorno alla metà del sesto secolo, un incendio aveva distrutto una delle due chiese, facendo crollare il poderoso tetto direttamente sui mosaici del pavimento. Un edificio di centinaia di metri quadrati, non molto diverso dalla copertura dell’area della cenatio (la sala da paranzo) della villa di Faragola. Risultato materiale? Ferro e cenere. Sotto gli strati di crollo dei muri infatti, poggiati direttamente sul mosaico, c’erano dappertutto centinaia di chiodi, perni, staffe e cerniere, miste in uno strato minaccioso, polveroso e nerastro.
Questo è quanto normalmente rimane di un grande soffitto di legno e della sua carpenteria in seguito a un incendio, dopo una settimana o dopo 1500 anni, a San Giusto come a Faragola. Ora, non è certo un mistero che gli archeologi siano abituati a confrontarsi quotidianamente nel loro lavoro con distruzioni, crolli, terremoti, incendi, e conoscano alla perfezione le tracce che ognuno di questi eventi lascia nella stratigrafia.
Cenere, rubefazione, crolli, frammenti in fin dei conti non sono altro che i resti della violenza del passato. Resti materiali che però non fanno male, perché lontani, storicizzati e indagati con distacco professionale. È certo però che conoscere e confrontarsi quotidianamente con la tragicità e la violenza della Storia non ha messo nessun archeologo al riparo dalla sofferenza di vedere e sentire, nella crudele diretta del web e dei social network, il calore delle fiamme, il puzzo di bruciato, i fili di fumo dalle macerie, le pietre diventate rosse per l’esposizione al calore, i marmi trasformati in polvere, i mosaici esplosi in piccoli frammenti di tessere annerite.
Tracce che questa volta ci hanno riportati tutti, istantaneamente, dentro la Storia. Quella stessa Storia che pensavamo di aver sconfitto, trasformandola in oggetto di studio o immobilizzandola in un futuro parco archeologico.
2. Ricostruzione
L’archeologia però non ci insegna solo a studiare e ad analizzare le tracce di vita e distruzione, ma anche e soprattutto a ricostruire. Già adesso, a pochi giorni dall’incendio, è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche: le macerie sono state rimosse e si sta riprendendo a lavorare sul cantiere, per ricominciare un’altra volta (a San Giusto invece la chiesa A dopo l’incendio fu abbandonata definitivamente: nessuno rimosse mai le macerie né ricostruì muri e tetto). Ricominciare non solo salvaguardando quanto resta, ma anche aprendo al pubblico il sito da subito, come faremo il 5, 6 e 7 ottobre, a un mese dall’incendio.
Ricostruire è infatti per gli archeologi un termine nobile, con un significato molto denso e profondo. Non si tratta solo di rimettere in sesto oggetti e monumenti (roba tipo ‘riportare all’antico splendore’ per intenderci), né di scegliere cosa e come farlo, ma piuttosto di analizzare, interpretare e raccontare l’intera storia di un sito, di un paesaggio, o di un contesto. E così si farà anche a Faragola, raccontando, valorizzando e musealizzando anche questo incendio che, come spesso succede nei siti archeologici, non è una fine, ma solo una fase di una storia più lunga.
Gli archeologi che sono oggi al lavoro a Faragola sanno infatti perfettamente che se è doveroso provare a ripristinare Faragola con tutti i mezzi a disposizione, dal restauro alla fruizione multimediale, è altrettanto doveroso che non si perda memoria di questo tremendo evento, che nessuno avrebbe voluto vivere, ma che è sbagliato ignorare, rimuovere o dimenticare ripulendo e restaurando. Questa storia deve essere mostrata e raccontata, perché dimenticare la distruzione sarebbe una parte della distruzione, la più irreparabile forse.
Dopo il 7 settembre 2017 Faragola si è irreversibilmente trasformata in un traumascape, un luogo il cui valore non è più solo nei suoi resti che ci parlano di un passato remoto, ma anche nella testimonianza di una storia contemporanea, che ci mostra come la violenza e la distruzione continuano a essere intorno a noi, e che le cose si possono trasformare in rovine e reperti nel giro anche di una sola notte.
Prima ancora di ottenere una risposta dagli inquirenti, di conoscere una causa, un colpevole, un movente, l’incendio di Faragola è per tutti una tremenda ma incredibile lezione di storia e di vita: archeologia e beni culturali non sono l’irenico mondo della bellezza, dell’arte, dell’ammirazione e della contemplazione, ma il luogo in cui la storia si materializza e diventa memoria e futuro.
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