È come scendere dentro le viscere della terra. Lungo il viale alberato d’ingresso si staglia la città all’orizzonte: i quattro ettari e mezzo di Ercolano scavata. Cammino piano per memorizzare ogni frame del panorama in movimento, attraversando un ponte moderno che sembra la prua di una nave. È sospeso sull’antica spiaggia. Guardo giù: le pareti del fossato di oltre venti metri di fango vulcanico che ricoprì la città, sono la fotografia stratigrafica di ventiquattro ore di eruzione.
Gli scheletri dei fuggiaschi
Da quassù si intravedono le arcate che, usate come ricovero per le piccole imbarcazioni dei pescatori, sorreggono le terrazze delle terme suburbane da un lato, e dell’area sacra suburbana dall’altro. Sotto e davanti questi dodici fornici, vennero ritrovati circa trecento scheletri di fuggiaschi, ammassati, che cercavano la via di fuga, in attesa dei soccorsi dal mare. E invece lì, su quella che era un tempo la linea di costa – oggi è più avanti di quattrocento metri – incontrarono la morte. Uomini, donne e bambini morti all’istante, i loro tessuti vaporizzati a causa dell’impatto con la nube ardente di cenere e gas a temperature di cinquecento gradi. Come in un altoforno.
Sosto sul ponte: numeri, date, conti, indagini. Ma non c’è solo questo. Intatta resta la sofferenza della tragedia, nell’atto finale del dramma. “La circostanza stessa di aver trovato parte di un popolo come fermo nel tempo – cosa ben diversa dallo scavare morti nelle tombe – rappresenta un’occasione irripetibile per la cultura di tutto il mondo” scrisse nel 1985 l’archeologo Giuseppe Maggi che aveva diretto lo scavo degli scheletri tra il 1980 e il 1982. Non i cadaveri di una necropoli, quindi, ma persone sorprese vive dalla furia del Vesuvio nel 79 d.C. Questa l’unicità della scoperta.
Un’istantanea che cattura gli ultimi momenti di vita: una madre che abbraccia suo figlio, un bambino stretto al suo cane. Nella cassa toracica della ‘criatura’ sono stati trovati semi d’uva, resti dell’ultimo pasto. C’è chi è scappato con i gioielli, chi soltanto con la chiave di casa. Scheletri che a differenza dei calchi in gesso di Pompei ci dicono, grazie ai recenti studi antropologici, come vivevano gli ercolanesi, cosa mangiavano, che lavoro facevano, di quali malattie soffrivano. All’ingresso degli scavi, accanto all’antiquarium che ospita la mostra sugli ori di Ercolano (più di duecento pezzi, di cui un centinaio sono monili preziosi), subito prima di addentrarsi nel tunnel vivo del tempo, c’è un padiglione dove si ammira una barca di nove metri ben conservata, forse una liburna, una lancia militare, parte della flotta romana. Ci riporta subito al racconto dell’eruzione che Plinio il Giovane fa nella lettera a Tacito.
Ercolano di notte
Sono arrivata a Ercolano all’imbrunire. Ennesimo tramonto che non è mai tale. Sempre una prima che non ammette replica. È l’ultimo giorno di apertura straordinaria estiva: consentita, cioè, oltre il morir del sole. Ma è anche l’ultimo sabato prima che, a distanza di una settimana, il lockdown autunnale chiuda il sito archeologico d’improvviso. Cancelli sbarrati per un mese, a causa dell’emergenza sanitaria, nei musei, nei teatri, nelle aree archeologiche di tutta Italia. I cosiddetti ‘luoghi di cultura’. Covid statuit.
Ma in ogni interruzione c’è, insito, l’incipit di un racconto latente, sottaciuto che scalcia, preme per uscire, in cerca di parole. Dal ponte osservo il dolore. Occorre dare un nome. Che non è definire, ma aggiungere. Nominare, animare. Credo che sia questo a fare paura: la casualità di tutto. La mascherina filtra il mio respiro. Eccola, la fragilità. L’esercizio della distanza. E io, invece, mi aggrappo al minuscolo dell’opera, alle note a margine, gli asterischi, i post scriptum. Perché mi avvicina al senso maiuscolo di tutto.
Superato il ponte, calpesto finalmente i basoli di duemila anni fa. È cambiata la luce, pur senza uno stacco, senza un’indecisione. I fasci dei timidi fari illuminano il Cardo inferiore e si confondono con i raggi di luna piena della notte di Halloween che accompagna il mio viaggio. Gli astronomi la chiamano la luna blu del cacciatore, poiché secondo la tradizione popolare permetteva di cacciare, di fare scorte per l’inverno. A me toccherà fare scorta di bellezza.
Case antiche e moderne
La città è vuota, e di tanto in tanto si avvicina un sorvegliante con una lampadina tascabile a mo’ di fiaccola: guida l’itinerario per mettere in guardia dai passi maldestri sul selciato disconnesso e a visibilità ridotta. Mescolo cardini e decumani. Entro nella Casa dell’alcova, famosa per l’affresco di Arianna abbandonata salvatosi dai primi scavatori borbonici. Nel cortile alzo lo sguardo: su di me la città nuova. Ne sento l’eco da un balcone di una palazzina di fronte con affaccio direttamente sugli scavi. Ne sento l’odore, sfiata dalle imposte così vicine, e grava. Come le abitudini. Di ieri e di oggi, il confine è sottile. Travasi e prestiti di vita porosa.
Proseguo, la via si fa più scura, varco un’altra domus. Invado la privacy di chi la abitava. Mi pare di riconoscere le voci nella quiete ovattata. Il silenzio è il paradiso delle ipotesi e il buio complice aiuta l’immaginazione. Sento il padrone di casa che si prepara per andare a dormire sul suo letto.
Il legno qui è sopravvissuto perché, mentre Pompei fu coperta da una pioggia di cenere e lapilli, al contrario Ercolano venne sepolta da un flusso piroclastico che, raffreddandosi e solidificandosi, si insinuò in ogni interstizio, impedendo la decomposizione di materiali come stoffe e legni. Shock termico che fossilizza. Carbonizzati, perciò, ma non distrutti i tredici letti rinvenuti, gli sgabelli, i tavolini, la cassapanca, le panchine, la culla (dove, adagiato su un materassino, è stato ritrovato lo scheletro di un bambino), l’armadio-larario, il soffitto dipinto in abete bianco, il tramezzo cioè la parete fissa a soffietto che separava l’atrio dal tablino, i papiri.
Una cianfrusaglia di pensieri scorta i miei passi. Curiosa, mi aggiro per i cubicola fin quando d’un tratto il colore vivace di una parete attrae la mia attenzione. Davanti a me, nel triclinio estivo, si apre la scena di Nettuno e Anfitrite. Il mosaico, racchiuso in una cornice di conchiglie, è in costosa pasta vitrea: ai lati scene floreali e di caccia, al centro la divinità marina e la sua compagna. L’ambiente in cui si banchettava è raffinato, mi invento giochi d’acqua e vassoi di prelibatezze. Uno stretto corridoio, che permetteva al proprietario di passare facilmente dal luogo di lavoro alla zona privata, portava alla caupona, cioè la nostra tavola calda, dove si sono conservate la ringhiera in legno del ballatoio e le mensole su cui erano riposte le anfore.
In ascolto
Le Terme, la Casa del tramezzo di legno, la Casa sannitica. Giro, mi intrufolo, ascolto. Non tutto è visitabile stasera. Cerco di scattare foto, ma desisto. Sarebbe come rubare istanti ad Herculaneum, un modo di non osservare, di non sentire. Un modo di ignorare. In prossimità del Decumano massimo, a ridosso della parte di città ancora non esplorata perché schiacciata dalla sovrastante Ercolano moderna, entro nella sede degli Augustali. Il loro collegio, dedicato al culto dell’imperatore Augusto, stava appunto vicino all’area del Foro dove si svolgeva la vita pubblica, politica e commerciale, oltre che religiosa.
Quattro grandi colonne, che dividono in tre navate lo spazio davanti a me, mi accolgono trasmettendo solennità. Su una di queste sono ancora visibili alcuni graffiti che invitavano a votare nella curia augustana. Al centro il sacello, realizzato dopo il terremoto del 62 d.C., gli affreschi in quarto stile raffiguranti Ercole – che si dice fondò la città al ritorno da una delle sue fatiche – mi trasportano nella realtà ‘altra’ del mito. Sulla parete di sinistra Ercole nella sua apoteosi con Giunone, Minerva e Giove sotto forma di arcobaleno, su quella di destra in lotta con Acheloo per salvare la sua futura sposa Deianira. La realtà ‘vera’ sta in un vano ricavato di fianco al sacello, la stanza del giovane custode il cui scheletro fu ritrovato disteso sul letto. Nel suo cranio frammenti di cervello vetrificato. Forse dormiva, chissà sognava.
Cultura e libertà
È invece un custode moderno a strapparmi dal mio sogno ad occhi aperti. Mi avverte dell’imminente chiusura. Si è fatto tardi. Avanzo verso l’uscita. Sono l’ultima visitatrice rimasta. Mi volto per un attimo: hanno già spento le luci artificiali. Scorgo a memoria la terrazza di Marco Nonio Balbo, personaggio illustre di Ercolano in età augustea che restaurò e costruì molti edifici cittadini e a cui vennero tributati grandi onori. La sua statua ‘loricata’ (cioè con corazza), calco dell’originale, domina la panoramica piazza antistante le Terme suburbane, proprio di fronte al golfo di Napoli: pare una ‘statue of liberty’ che saluta oggi chi entra e chi va via. Libertà.
Dissacrante pensiero, lo so, ma forse lo è tutto in questo periodo che rende inaccessibili luoghi di simile bellezza ristoratrice. I cosiddetti ‘luoghi della cultura’. Ma la cultura non è ciò che si coltiva, nella buona e nella cattiva sorte? Passo sotto la pergola fiorita. Indugio. Tra le ciglia socchiuse sta la luna piena, rimasta lume fedele della città d’Ercole. Ercolano si è assopita. Sento già la nostalgia. Non è assenza, né mancanza; è un sentire troppo, un proteggere nella pienezza. Sono scesa nel ventre della terra. Ma il ventre era cielo, tutto intero.
Bellissimo articolo struggente ma anche professionale e di una conoscenza non qualunquista. Patrizia Palumbo
Bellissimo racconto. Mi sembrava di essere li con te.
GRAZIE, per il tempo del racconto sono stato anch’io a Herculaneum con il piacere degli occhi di Claudia Procentese (Claudia fa molto latina…), viva voce e viva vita trasmessa dai suoi occhi per farci “vedere” e “sentire” il percorso.
Alrimenti avevo già conoscenza delle centinaia di scheletri nei “fornici”, ma solo adesso ho saputo, da Lei, che la battigia ora é a 400 m dagli antichi ricoveri dei pescatori di Ercolano !!!! Ecco la mia scoperta grazie alle parole di Claudia, mi permetto e chiedo scusa di usare solo il nome, trazie.
Gianfranco