Si è discusso molto in questi giorni dell’annunciata chiusura del Department of Classics della Howard University. Howard è l’università di punta dei neri d’America, ha troppo pochi studenti di greco e latino, e ha calcolato che economicamente non le conviene. Ha dunque deciso di disperdere i docenti di ruolo in dipartimenti diversi, e allontanare col tempo gli altri.
Apriti cielo! Petizioni e levate di scudi! Cornel West, classicista di Harward, parla di “catastrofe spirituale”, di “messaggio disturbante” di Howard che s’inserisce nel “decadimento spirituale, declino morale e profonda chiusura mentale” della cultura americana contemporanea. Una cultura che, privandosi dei ‘classici’, insegna ai suoi giovani mere nozioni e non a sviluppare una propria coscienza critica.
Non solo déjà vu
Pare un déjà vu, un dibattito già sentito mille volte anche nei nostri lidi mediterranei. Invece è diverso e molto radicato nel clima culturale statunitense. Il mondo classico è servito a tutte le nazioni moderne occidentali (e non solo) come proprio ‘mito fondatore’, usato in modi diversi a seconda delle esigenze. Una religione laica capace di qualificare ogni progetto politico e sociale. Dopotutto, come soleva dire lo storico dell’arte Aby Warburg, “ogni epoca ha la rinascita dell’antichità che si merita”.
Negli Stati Uniti, però, l’operazione ha rivelato più che altrove la sua natura artefatta e arbitraria. Perché è servita non solo ai Padri fondatori ma anche, per esempio, agli stati del Sud per legittimare la loro schiavitù con quella antica. Del resto, non potendo vantare testimonianze del glorioso passato, l’hanno ricreato costruendo edifici nuovi con facciate di colonne e frontoni alla maniera antica. E li ha costruiti l’élite bianca che governava il paese.
Da allora a oggi, i cosiddetti ‘studi classici’ sono stati sempre appannaggio di quella élite bianca. Le eccezioni sono rarissime. Anche la maggior parte degli attuali docenti di Howard ha la pelle bianca. Gli esponenti di estrema destra – maschilisti e suprematisti – abusano degli autori antichi per giustificare le proprie idee, ma forse non è del tutto esatto considerarli una fronda indipendente e isolata, da combattere con le armi della conoscenza. Forse sono la punta di un iceberg: un prodotto, ancorché degenerato, degli studi classici accademici moderni.
Decolonizzare i Classics
Un articolo di Rachel Poser nel New York Times del 7 febbraio scorso, offre un quadro complesso ma chiaro dello stato degli studi classici negli Stati Uniti. Mostra come la decolonizzazione sia necessaria e urgente, lì più che altrove, e da più punti di vista. Decolonizzazione nella scelta degli argomenti e delle prospettive di ricerca, così da indagare la vita di tutte le genti del mondo antico e non solo quella dei capi e degli intellettuali. Per capire quanto l’antichità sia stata idealizzata con una vera e propria operazione di whitewashing.
Ma anche decolonizzazione per aprire gli studi classici a tutti, non solo a chi dice di averli ‘ereditati’ per ‘tradizione’ ma anche a chi può vivificarli da punti di vista diversi. Pare però che l’America bianca non sia ancora pronta per questo. È pronta per essere governata da persone di colore, ma non per accoglierle nei baluardi del proprio sapere.
Me lo spiegava tempo fa una studentessa nera della American University di Roma, venuta in Italia perché folgorata dalla lettura degli autori antichi. “Tutti cercano di dissuadermi – raccontava – Mi dicono che, in quanto nera, non potrò mai avere un futuro negli studi classici. Che ‘non fanno per me’, ‘non mi appartengono’. Ma io ho la testa dura e non desisto”. Spero tanto che lo abbia fatto.
Proprio come Dan-el Padilla Peralta, nato a Santo Domingo e docente di Classics a Princeton, la cui storia è il filo conduttore dell’articolo di Poser. Ha voluto studiare gli antichi a ogni costo, dopo averli scoperti in un libro scolastico, e per questo si è scontrato con i suoi stessi amici che lo accusavano di studiare cose ‘da bianchi’.
Col tempo, però, è diventato così critico verso i suoi colleghi bianchi, che ora fatica a trovare un modo per conciliare lo studio del mondo antico con la difesa di quei principi di libertà, uguaglianza e democrazia di cui quel mondo è considerato l’origine. In quegli studi vede oramai solo la giustificazione ideologica di tutti i razzismi e le ingiustizie del mondo moderno.
Come decolonizzare?
Sembra che la situazione sia giunta a un vicolo cieco: i bianchi fanno di tutto per tenere lontani gli ‘altri’ dagli studi classici, e per contro gli ‘altri’ si guardano bene dall’avvicinarsi. E quando testardi lo fanno, come Padilla, si scontrano con le realtà moderne che usano i classici come baluardo. Se si somma tutto ciò con il fisiologico declino degli studi classici un po’ ovunque nel mondo, si giunge alla chiusura del Department of Classics di Howard per scarsità di studenti. E quel che preoccupa, più della chiusura in sé dovuta a un mero calcolo economico, è proprio il numero esiguo di studenti.
Noi, da questa parte dell’Atlantico, sorridiamo quando negli Usa l’opinione pubblica si scandalizza ancora alla ‘scoperta’ che non tutti gli antichi avevano la pelle bianca e vivevano in un mondo algido da fiaba. Per noi, oramai, sono idee antiquate a cui quasi nessuno crede più. Il mondo della ricerca è riuscito a coinvolgere i cittadini, almeno su queste questioni basilari. Mentre pare che negli Usa il divario sia tale da aver cristallizzato le posizioni da entrambe le parti con riflessi importanti e preoccupanti sulla società: la chiusura di Howard (con tutto quel che ne consegue) da un lato, e il dilagare del suprematismo bianco dall’altro.
Come ‘decolonizzare’, dunque, se di fatto manca la volontà da ogni parte? Se la connessione tra il mondo antico e la mentalità razzista e coloniale è percepita come intima al punto da diventare inestricabile? Come mantenere vivo il valore di ‘classico’ che la storia e la letteratura antiche hanno per tutti – e per il mondo occidentale in particolare – e al contempo guardare alle società greca e romana con occhio più realistico e disincantato? Come far capire l’urgenza di invitare chiunque allo studio della Grecia e di Roma, anziché dissuaderlo, perché se tali studi avranno un futuro, sarà proprio grazie a una pluralità di visioni?
Sono domande cha al momento trovano poche risposte. Però l’articolo di Poser si chiude con una luce di speranza: confida che provocazioni importanti come quella di Padilla porteranno inevitabilmente a un rinnovamento generale degli studi classici. Persino prima di quanto potremmo immaginare.
Classics all’italiana
E non è escluso che il dibattito statunitense possa avere un significato anche per noi, in Italia.
Che la Grecia e Roma antiche siano per noi riferimento imprescindibile, è dato indiscusso, e col tempo abbiamo imparato a ponderare criticamente i loro utilizzi marcatamente ideologici nei secoli. A fatica, certo. E conservando tuttora, per esempio, un certo ‘fastidio’ per quell’impero che il fascismo ha malamente strapazzato.
Ma, come in altri campi del sapere, neppure noi siamo scevri dalla necessità di decolonizzare. Di aprire a sguardi diversi senza indugiare in atteggiamenti paternalistici. Magari abbandonando una volta per tutte la definizione ‘classico’ che è oggettivamente comoda, ma inadeguata e persino limitante.
Classico è ciò che continuiamo a prendere come esempio, che non ci stanchiamo di rileggere, riguardare e ripensare perché ci dice sempre qualcosa di nuovo e diverso. Non tutto quel che ci giunge dal mondo greco e romano è per noi ‘classico’ – e non è necessario che lo sia – mentre è giusto e bello condividere con più persone possibile ciò che ci ha colpiti, che amiamo e con cui ci confrontiamo di continuo.
Ognuno di noi ha i propri classici. Scambiare visioni sui classici propri e altrui, e fare scoperte reciproche, è quel che ci rende più vivi. E più umani.
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