Ottanta. Ottanta scheletri in una fossa. Ottanta uomini, giovani, nel pieno delle forze, i corpi muscolosi e scattanti, la pelle baciata dal sole, ridotti così, a un mucchietto d’ossa sepolte in un buco della terra vicino al Falero. Il tempo è passato su di loro, sulla terra che li ricopriva, sulla città. Il tempo, per loro, si misura in millenni.
La congiura dei Ciloniani
Settimo secolo avanti Cristo ad Atene. Che non è l’Atene che immaginiamo noi, il faro dell’Ellade, la scuola dell’Occidente. È una cittadina provinciale, anche un po’ sonnacchiosa, parecchio più arretrata di quelle che le stanno intorno, governata da una cricca di aristocratici non molto aperti di mentalità e dai gusti estetici pacchiani, tanto è vero che importano dalla ricca Ionia non idee, ma cicale d’oro da usare come fermagli per capelli.
Gli avessero raccontato che di lì a poco il nome della loro città sarebbe diventato sinonimo di cultura, di studio, di filosofia e di democrazia, si sarebbero messi a ridere, gli Ateniesi. Ma ancora di più avrebbero riso i loro vicini, perché all’epoca persino Megara era un posto più evoluto e alla moda, aperto alle novità politiche e alle moderne influenze, tipo la tirannide.
Ed è a Megara che comincia tutto. Cilone, giovanotto della Atene bene dell’epoca, atleta di successo, aristocratico quanto basta per annoiarsi di quel mortorio ateniese, decide di agire. Si sente migliore degli altri, lui che è anche imparentato per vie matrimoniali con Teagene, il tiranno di Megara appunto. E allora gli viene l’uzzolo di svoltare, di cambiare il corso dell’esistenza sua e dell’Attica. Facciamo un colpo di Stato, pensa: è riuscito a Teagene, perché non dovrebbe riuscire a me? Stufo di essere il genero di un tiranno, decide di diventare tiranno lui stesso.
Va a Delfi, dove i sacerdoti sono sempre pronti a dare un responso, e spesso una mano, a chi vuole tentare rivoluzioni e congiure. Questi gli suggeriscono un piano: occupare l’Acropoli il giorno delle feste di Zeus. Cilone non se lo fa ripetere, chiama a raccolta gli amici, i parenti e il suocero, e il giorno delle feste di Zeus Olimpio, scortato dai suoi soci, prende l’Acropoli e zàc.
Panico, sconcerto. Sulle prime gli Ateniesi non sanno bene che fare, quasi quasi sarebbero lì lì per accettarlo come capo. Ma poi lo sconcerto è rimpiazzato dall’orgoglio: ma che, scherziamo? Passi sorbirsi un tiranno, ma sia mai che ce lo impongano quelli di Megara! Per cui dai campi e dalle officine (no, vabbe’ scusate l’anacronismo, diciamo dai campi e dai laboratori degli artigiani) si radunano con mazze e bastoni e assediano i Ciloniani sull’Acropoli, chiudendoceli in pratica dentro come topi.
Cilone, col suocero e il fratello, capiscono che non è aria e fuggono. Lasciano però lì gli amici, soli e storditi. Che non sapendo bene che fare, si azzeccano all’altare di Atena e dicono che non usciranno di lì se non gli garantiscono salva la vita. Gli Ateniesi ancora una volta quasi quasi ci stanno, perché il dubbio è che quei poveracci siano non pericolosi golpisti ma poveri sfigati, abbandonati dal loro capo e che non sanno più dove sbattere la testa. Quindi gli Arconti accolgono la richiesta e dicono: ok, uscite.
Ma qui, ecco, una delle svolte della storia. Che quando accadono, sembrano una stupidaggine, e poi invece… Gli Alcmeonidi, famiglia assai potente – sono discendenti di Codro, l’ultimo re di Atene – non ci stanno. Dicono sì uscite pure, ma poi, quando i Ciloniani sono pronti per arrendersi, com’è come non è, succede un caos. Gli Alcmeonidi, tipo i berretti verdi, fanno irruzione nel tempio, trascinano via i supplici per i capelli, incuranti del fatto che, abbarbicati agli altari, godono della protezione degli dei. E quel giorno gli dei sono distratti. I Ciloniani vengono tirati fuori a forza, e i giuramenti fatti prima si rivelano per ciò che sono: parole al vento. Vengono trucidati, brutalmente, tutti.
La maledizione degli Alcmeonidi
La pagheranno, gli Alcmeonidi: qualche anno dopo, considerati empi per la strage, saranno cacciati dalla città. E comincerà una lunga storia di rientri ed esili: nemici di Pisistrato, accusati di tramare contro lo Stato, ripareranno a Delfi, dove il loro discendente Clistene vincerà l’appalto per ricostruire il tempio, rientrerà in Atene scacciando Ippia, e poi inventerà la democrazia.
L’avrebbe inventata senza quella strage che macchiò l’onore della famiglia, e la relegò tra le fila dei reietti e degli esuli? Avrebbe mai potuto imparare a essere sensibile verso le sofferenze di chi perde la patria, la famiglia e l’onore, perché bandito dalla sua città? Chi può dirlo.
Di sicuro non possono dirlo loro, i Ciloniani, massacrati in un’alba livida dopo che era stata promessa loro salva la vita. Massacrati per essersi arresi, e destinati a una fossa comune. Il tempo è passato, i millenni hanno ridotto in polvere i loro nemici, l’Atene che allora era un villaggio, e persino quella più gloriosa sviluppatasi il secolo successivo. Ma ora le loro ossa sono tornate alla luce. Forse ci sono anche i loro tra i tanti scheletri nell’armadio della democrazia.
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