Siamo una cinquantina, quasi tutti archeologi, arrivati al Cairo il 4 dicembre con voli da Roma e Milano. Accolti all’aeroporto, ci muoviamo verso Zamalek, l’elegante quartiere che occupa la parte nord dell’isola di Gezira, nel cuore pulsante della città. Perché è lì, nella sede del Ministero delle antichità egiziano (e in un hotel vicino), che si tiene il convegno Archeologia italiana in Egitto e nei paesi di area Mena, ovvero l’Africa settentrionale e il Vicino Oriente.
Il convegno è organizzato dal Centro archeologico dell’Istituto Italiano di Cultura, guidato da Giuseppina Capriotti Vittozzi, ed è alla sua seconda edizione. Tuttavia questa edizione si preannuncia imponente: quattro giorni di sessioni con key-lectures, interventi più brevi e dibattiti, una mostra, un avvio d’eccezione con il Ministro egiziano delle antichità, Khaled El-Anany, l’Ambasciatore d’Italia Giampaolo Cantini e Mostafa Waziri, Segretario generale del Consiglio supremo delle antichità, come si chiama in Egitto la struttura del Ministero deputata a tutte le attività di conservazione, ricerca e valorizzazione del patrimonio storico-archeologico.
Egitto di ieri e di oggi
La prima conferenza italiana è di Patrizia Piacentini, ordinario all’Università degli studi di Milano, che da aprile di quest’anno è anche la mia università. Patrizia parla di archivi storici e di storia dell’Egittologia, mentre scorrono immagini d’epoca, lettere, disegni che compongono le straordinarie raccolte della Statale, tra cui gli archivi Edel, Varille e Loret, solo per citare quelli maggiori.
Tarek Tawfik è il direttore del Grand Egyptian Museum, il faraonico – è il caso di dirlo – nuovo polo museale che dovrebbe aprire al pubblico nel 2020. Tawfik illustra la situazione del cantiere, il progetto e le caratteristiche di un centro polifunzionale dotato di laboratori di restauro già attivi. Cinquanta ettari la superficie occupata, cinquantamila i reperti che vi troveranno posto, provenienti dai più importanti siti della valle del Nilo. Una struttura a ventaglio dalle forme morbide che guarda le piramidi di Giza, distanti appena due chilometri.
In questo museo sarà portato tutto l’incredibile corredo della tomba del faraone Tutankhamun, mentre al secondo piano del vecchio Museo egizio del Cairo, quello inaugurato nel 1902 nel grande edificio in stile neoclassico che fa da sfondo a Piazza Tahrir, rimarrà il favoloso corredo della tomba di Yuya e Tuya (funzionario di alto rango della XVIII dinastia e consorte) con i sarcofagi, gli splendidi mobili, gli oggetti e gli ornamenti rinvenuti da James Quibell nella Valle dei Re un ventennio prima di quando Howard Carter scoprì la famosissima dimora eterna del faraone diciottenne.
Un incontro necessario
Il convegno è evento veramente importante per l’archeologia del Vicino Oriente. Innanzitutto perché per la prima volta sono riuniti quasi tutti i direttori delle missioni archeologiche italiane. Molti si conoscono da tempo, altri da poco, altri si incontrano qui per la prima volta. Ci sono archeologi classici e preistorici (e persino paleontologi), medievisti ma anche architetti, orientalisti e naturalmente egittologi, a rappresentare plasticamente la ricerca archeologica svolta dalle oltre sessanta missioni riconosciute dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Campagne di scavo e indagini territoriali annuali, condotte con grande competenza, infinita passione e costante impegno – ma spesso con troppo poche risorse.
Tuttavia, nonostante la progressiva riduzione dei fondi pubblici per la ricerca, l’Italia dell’archeologia è presente in tutti i paesi dell’area, nessuno escluso, dal Marocco all’Iran. In Egitto le missioni sono oltre venti, mentre in Iraq, per esempio, poco meno di dieci. E anche dove il lavoro sul campo è stato interrotto per i conflitti e perché troppo rischioso, come in Siria e in Libia, si continua con studi e pubblicazioni, mappatura dei siti e soprattutto del rischio archeologico.
Tutte le missioni in mostra
Due sale dell’Istituto di cultura espongono pannelli alti due metri che documentano la capillare presenza dell’archeologia italiana nei paesi dell’area Mena. Ogni missione/progetto ne ha a disposizione uno. Ho preparato il testo mentre ero a Erbil, nel Kurdistan iracheno, assieme ad Agnese Vacca, vice-direttore della missione archeologica dell’Università degli Studi di Milano. Decine di pesanti file spediti agli organizzatori che ora vediamo, trasformati in materia, comporsi nella corale testimonianza della ricerca italiana.
L’inaugurazione della mostra, nella serata del secondo giorno, è affollata, con tanti giovani studentesse e studenti egiziani, oltre a noi che non siamo pochi. Il direttore dell’Istituto, Paolo Sabbatini, ricorda che la realizzazione della mostra è stata possibile perché l’Istituto ha l’incarico ministeriale di coordinare le attività degli istituti di tutta l’area sub-sahariana e vicino-orientale, e ci invita a un evento per la sera successiva, all’Opera House, dove non andremo a vedere l’Aida, in programma nella sala principale, ma uno splendido concerto jazz&tango di Javier Girotto e Vince Abbracciante, un tandem italo-argentino sorprendente e quanto mai inusuale al Cairo.
Un quadro troppo frammentato
Il successivo programma dei lavori è intenso e prevede sempre dei moderatori egiziani, due conferenze principali, una serie di interventi ‘programmati’ e una discussione finale. Si inizia con Quale archeologia, oggi? a evidenziare tendenze, urgenze e criticità attuali. Il percorso tocca poi la multidisciplinarità della ricerca e le nuove tecnologie, la tutela e conservazione dei siti, la formazione e il capacity building delle missioni, la valorizzazione e il rapporto con il turismo, la documentazione e gli archivi.
Dal confronto di esperienze eterogenee, condotte in contesti altrettanto diversi, emerge un quadro certamente ricco ma al contempo frammentato, che rivela pratiche e metodi per nulla condivisi. In questo mosaico di archeologie italiane, che nella mostra è esteticamente attenuato dall’immagine coordinata dei pannelli, sta il vero senso dell’iniziativa che va certamente riproposta, come si è detto nella sessione conclusiva, anche se forse non all’estero per via degli alti costi, in tempi così duri. Si è rilevata infatti la necessità di una maggiore condivisione di idee ma anche di mezzi e strutture, e di progetti che uniscano le forze. Intenti sicuramente difficili da realizzare in un quadro competitivo che porta università ed enti di ricerca a cercare risalto in autonomia, ma perché non provarci?
Tra poco più di un mese a Udine e Milano un workshop sulle ricerche italiane in Iraq segnerà una tappa importante di un progetto di ricerca di interesse nazionale (Prin) finanziato dal Miur (Paesaggi archeologici dell’antico Iraq fra preistoria ed epoca islamica: formazione, trasformazione, tutela e valorizzazione) che vede insieme gruppi di quattro università (Torino, Milano, Udine e Venezia) e di un istituto del Cnr. Successivamente a Firenze ci saranno una mostra e un convegno internazionale sulla storia e l’archeologia della Giordania (la 14a International Conference on the History and Archaeology of Jordan dal titolo Culture in Crisis: Flows of People, Artifacts and Ideas). Entrambe le iniziative sono il risultato degli sforzi congiunti delle missioni italiane che operano in quel paese arabo: due esempi che fanno ben sperare.
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