Venezia sta lentamente affondando? Sicuramente sì. Ma è anche vero che ‘noi’ abbiamo smesso di alzarla, cioè di intervenire dal punto di vista edilizio e urbanistico come la Serenissima ha fatto per secoli. Le drammatiche vicende dell’eccezionale acqua alta del questo novembre 2019 portano alla ribalta un aspetto sul quale occorre riflettere: il nostro modo di ‘conservare’ tenacemente i beni culturali, preservandone l’autenticità a tutti i costi, può rivelarsi un’arma a doppio taglio.
Il cuore di Venezia ma anche la Giudecca, Pellestrina, Chioggia, Murano, Burano, Torcello sono stati letteralmente invasi dall’acqua alta in questi giorni. Il Lido invece no. Eppure è un sottile lembo di terra tra mare e laguna, e densamente abitato. Però è un’isola ‘alta’, per lo più edificata in epoca moderna.
Al Lido negli ultimi decenni i piani urbanistici, i restauri e gli interventi edilizi si sono mossi con una certa libertà, senza dovere fare i conti con una memoria ingombrante del passato. I piani delle case sono stati via via alzati, armonizzandoli ai livelli medi del mare e della laguna in continua crescita. Si è fatto quello che a Venezia da diverso tempo non si fa più: ci si è progressivamente ‘alzati’.
Cosa ci dice l’archeologia
I veneziani si sono confrontati da sempre con il problema delle acque alte, anche eccezionali. E possiamo usare la lente della ricerca archeologica per capire come hanno è risposto, nel passato, ai problemi della subsidenza e dell’eustatismo.
Chi ha scavato a Venezia o nelle isole sa bene che i livelli antichi, ovvero altomedievali, si trovano almeno a 1,3-1,5 metri di profondità, e questo perché il tessuto urbanistico è stato interessato da un’incessante crescita stratigrafica: si tratta dei ‘rialzi’, riporti che strutturalmente definiscono tutta la storia archeologica del sottosuolo veneziano. Nel progettare case, cantieri navali, atelier artigianali, botteghe, chiese e monasteri i veneziani hanno sempre saputo di dover costruire di volta in volta su piani un po’ più rialzati sulla laguna rispetto alle epoche precedenti.
Gli scavi archeologici, a Torcello e in città, ci descrivono l’abitato originario di Venezia: nel IX e X secolo era una città costruita, chiese a parte, completamente in legno. Le case avevano possenti pali angolari, si sviluppavano generalmente su due piani, con pareti in legno, spesso coperte di intonaco. Si viveva al piano superiore, al pianoterra si camminava sopra assiti lignei che a loro volta poggiavano su riporti di argille.
Le indagini stratigrafiche dimostrano come sovente – circa ogni generazione – queste abitazioni in legno venissero rinnovate. Si stendeva un nuovo piano d’argilla, più alto di quello precedente, un nuovo pavimento di legno, e tutto l’edificio veniva riadattato e rimodellato a partire da un livello leggermente rialzato rispetto a quello della generazione precedente.
Lo stesso avveniva negli spazi aperti, alzando calli, campi, campielli e ristrutturando le cisterne per l’approvvigionamento dell’acqua piovana raccolta dai tetti, in modo che non si ‘allagassero’ di acqua salata.
Nei secoli successivi, a partire dal XIII/XIV secolo, ovvero quando la città si rinnova progressivamente e si passa dalla città in legno a una città costruita in materiali ‘non deperibili’, l’approccio di ammodernamento urbanistico non cambia. È vero che i nuovi edifici abitativi e produttivi hanno ora fondazioni in pietra, poggianti sul lato del canale su poderose palificazioni, e alzati in mattoni; ma l’attenta osservazione archeologica ci descrive come anche nella manutenzione di questi edifici, di generazione in generazione, i piani terra venissero progressivamente rialzati, stendendo nuovi pavimenti uno sopra all’altro.
E cosa avveniva per le chiese e i palazzi riccamente decorati? Progettatati per ‘durare’ a lungo, da sempre hanno comportato più problemi, ma sono comunque numerosissimi gli interventi attestati di riqualificazione: si cambiava la posizione dei solai e si aprivano le finestre ad altezze diverse. E ogniqualvolta un restauro non era sufficiente, si procedeva a una completa ricostruzione, anche di grandi palazzi e monumenti.
Non è un caso che l’area di San Marco, ovvero la zona della città dove è da sempre più difficile intervenire per gli ovvii significati simbolici, sia tutt’oggi la parte più bassa di Venezia. In quell’area, nonostante la piazza e la Basilica stessa siano state sopraelevata nel basso medioevo, la memoria del luogo e la ‘mirabilia’ degli edifici hanno in qualche modo imposto ai Veneziani di allora di ‘sopravvivere’ con monumenti ‘bassi’ rispetto alle medie dell’acqua alta in continuo aumento.
Venezia dunque, prima di diventare un oggetto culturale a uso e consumo del turismo globale, è stata una realtà urbana straordinariamente votata alla modernità, anche nella sua modalità di rinnovamento urbanistico. Se dovessimo fare un paragone, probabilmente assomigliava più a Dubai o a New York, che al luogo di memoria di oggi.
E oggi?
Grazie a un complesso sistema di leggi e consuetudini, Venezia (e ogni sua singola pietra) è tutelata, conservata, preservata. Venezia è unica, è speciale, e la sua singolarità va custodita in modo energico non solo per i Veneziani, non solo per gli Italiani, ma per il mondo intero. Le forme della città – i suoi palazzi, le sue case, le piazze, le calli, e le chiese – non debbono essere alterate. Si deve fare di tutto per mantenerle intatte, a ‘monumento’ di un passato glorioso. È ovviamente tutto giusto e sacrosanto. Ma a che prezzo?
A Venezia il risultato della strategia di conservazione, verificata sul lungo periodo, ha coinciso con la trasformazione della città in oggetto da museo. Noi, uomini moderni, abbiamo deciso che Venezia debba rimanere intoccabile, anche rispetto all’altezza dei suoi piani di calpestio, nonostante i fenomeni naturali e antropici stiano implacabilmente innalzando il livello delle acquee e abbassando i suoli su cui la città insiste. Stiamo conservando Venezia, ma la condanniamo a vivere a ‘quote’ e livelli di calpestio forse non più sostenibili.
Perché a Venezia c’è l’acqua alta
Una rapida occhiata ai grafici di frequenza delle acque alte veneziane superiori a 1,20 metri ci fa vedere come i picchi critici si concentrino negli ultimissimi decenni. È vero che monitoriamo le acque alte in modo scientifico e rigoroso solo da circa cento anni, ma l’andamento risulta indubitabilmente allarmante.
Le cause sono in parte naturali e in parte antropogeniche. I cicli astronomici di marea sono fortemente influenzati dalla subsidenza, ovvero dal progressivo sprofondamento dei suoli, e dall’eustatismo, ovvero dall’innalzamento del livello medio del mare.
La subsidenza è un fenomeno in parte naturale: i movimenti delle placche tettoniche in area adriatica e gli aggiustamenti degli strati superficiali della crosta terrestre provocano un graduale abbassamento dei livelli geologici. L’area costiera, però, è più sensibile ai fenomeni di subsidenza, poiché gli insediamenti insistono su una serie di sedimenti fini, limi e argille, che geologicamente sono ‘giovanissimi’: si pensi che le isole dove sorge Venezia non esistevano prima di 4-5.000 anni fa. Questi suoli sono, dunque, più comprimibili.
La compressione, inoltre, è amplificata dalle forze di compressione di tipo antropico. Venezia ‘pesa’ e schiaccia ancora di più i depositi sottostanti. L’uso massiccio di acque sotterranee per l’industria di Porto Marghera ha in passato peggiorato il quadro. Vincoli e norme hanno posto importanti e fondamentali freni, ma Venezia continua a ‘scendere’.
Che i cambiamenti climatici, poi, portino a un innalzamento medio del mare in progressivo aumento è dato assodato. L’acqua granda sembra essere destinata a divere sempre più minacciosa.
Rimpiangere il passato o immaginare il futuro?
C’è forse un aspetto positivo nell’angosciosa vicenda delle acque alte eccezionali che hanno stravolto Venezia in questi giorni: cittadini, giornalisti, scienziati e opinionisti hanno riacceso il dibattito sul problema della salvaguardia di Venezia. Ed è vero, verissimo, che negli ultimi decenni non siamo riusciti neppure lontanamente a emulare il prezioso lavoro che in passato il Magistrato alle Acque della Serenissima compiva quotidianamente.
Si trattava del più importante ‘ministero’ dell’antica Repubblica. Si occupava di controllare e regimentare lo spazio acqueo, ovvero la laguna, percepito come un territorio quasi del tutto artificiale, creato dall’ingegno dell’uomo per permettere alla città costruita ‘sull’acqua e per l’acqua’ di prosperare; e di non perdere mai il legame con la sua flotta, vero asset della Repubblica.
I progetti eseguiti dall’antico Magistrato alle Acque sono numerosissimi e complessi: ha deviato il corso di fiumi, bonificato terreni, scavato canali, spostato monasteri e abitati. Ha investito in costose e ciclopiche opere di difesa dal mare. In passato dunque la Serenissima ha saputo gestire positivamente e assertivamente gli aspetti decisionali legati al problema del vivere a pelo d’acqua.
Negli ultimi anni, invece, abbiamo fatto troppo poco o male. Non si vuole qui dare giudizi sulle soluzioni di difesa adottate, come per esempio sulla possibilità che il Mose – le dighe mobili attualmente in costruzione – possano o meno salvare Venezia. Incuria e malaffare, però, ci hanno messo nella condizione di non sapere neppure se quella soluzione sia davvero la migliore possibile.
Tuttavia non è inutile chiederci se lo sprofondamento di Venezia, oltre che alle ovvie cause naturali legate all’ineludibile cambiamento climatico, non sia da attribuire, in parte, anche a una particolare modalità – cifra e segno della contemporaneità – di gestire e conservare il nostro patrimonio paesaggistico e urbanistico.
Venezia non è Venezia senza i Veneziani
Le ricette non possono essere ridotte a semplicistiche decisioni ‘una-tantum’. I problemi sono complessi e includono numerose azioni: dalla gestione sostenibile delle paratie mobili del Mose, al mantenimento e pulizia del delicato ecosistema di canali della laguna, alla verifica della fattibilità di avveniristici progetti d’innalzamento dei ‘sedimi’ di Venezia tramite iniezione di acque del sottosuolo. Ma anche, forse, a possibili campagne di lento rinnovamento urbanistico e edilizio, accompagnate da azioni tecnologicamente avanzate per il contenimento delle acque intorno ad alcuni edifici ‘intoccabili’ per le loro caratteristiche storico-artistiche.
La forza, però, di ognuna di queste azioni pare profondamente indebolita dal fatto che la voce della parte più importante del ‘bene culturale’ Venezia, ovvero i suoi abitanti, risulta troppo debole. Il peso, non solo simbolico ma effettivo, di quasi 30 milioni di turisti, schiaccia la città e riduce la forza di reinventare una Venezia del futuro.
Certamente, anche se c’è un’altra cosa importante di cui tener conto. Che l’ultima glaciazione è finita da pochissimo, circa 10000 anni fa, e la prossima non possiamo certo sapere quando avrà luogo. Quindi siamo in un cataglaciale e di conseguenza le temperatire continueranno a salire fin quando non vi sarà una inversione di tendenza, nessuno può sapere quando. Di conseguenza ancora, intervento più o meno scriteriato, come quello attuale dell’uomo o no, i ghiacci continueranno tendenzialmente a sciogliersi e i mari a salire. Se i politici non lo hanno ancora capito e nessuno prende delle misure razionali e sistematiche di salvaguardia, le possibilità che Venezia si salvi non esistono nemmeno per caso
Interessante e ben scritto. Grazie!
Ottima e istruttiva analisi in particolare nella chiusa finale. Complimentii
Complimenti!!!!