Nei giorni scorsi si è svolto a Roma, al Collegio Romano, l’interessante convegno Allestire l’archeologia voluto dalla Direzione generale musei del Ministero della cultura. Sono stati presentati molti progetti per musei e parchi archeologici realizzati da poco o in via di realizzazione, anche grazie ai fondi garantiti dal PNRR.
Purtroppo non sono riuscita a partecipare di persona, ma ho seguito qualche intervento e dibattito online. E sono stata felice di sentire tante parole chiare e puntuali su come costruire una buona esperienza di visita e sul ruolo dei musei nelle società.
Allestire l’archeologia con chiarezza e originalità
Finalmente pare che anche i musei abbiano capito di dover mettere in pratica i buoni principi della comunicazione, a partire da quel che scriveva già Aristotele e cioè, in una sintesi modernizzata:
- conosci i tuoi pubblici: ascolta le loro esigenze e usa temi, linguaggio e tono di voce adeguati;
- abbi chiaro il tuo obiettivo e scegli bene gli argomenti su cui puntare.
Perché i musei sono luoghi della comunicazione, e ciò sia detto non per sminuire i loro compiti di base di ricerca e conservazione (come a volte si continua a pensare), ma al contrario per esaltarli, perché i musei sono luoghi dove ‘per statuto’ tali compiti vanno condivisi con i cittadini tutti.
Temo però che le belle parole del convegno abbiano alzato di troppo le mie aspettative, o dipinto una realtà edulcorata. Nel weekend ho visitato a Roma un museo nuovo e due mostre, quindi tre allestimenti recentissimi, ma in tutti e tre ho trovato carenze comunicative macroscopiche. I due principi aristotelici venivano regolarmente ignorati.
Falle comunicative al Museo della Forma Urbis
Prima visita: il Museo della Forma Urbis al Parco archeologico del Celio. Ero già stata all’inaugurazione e mi era piaciuto tantissimo. Avevo elogiato, come tanti del resto, sia la scelta di allestire la mappa antica in orizzontale, a pavimento, che la sovrapposizione con la pianta settecentesca del Nolli. E anche la seconda volta mi sono divertita un mondo a scoprire particolari sempre nuovi di quel che ammiravo sotto i miei piedi.
All’inaugurazione, però, per la gran confusione non ero riuscita a leggere con attenzione i pannelli. Così questa volta, in quasi solitudine, ho guardato bene tutto. E sì, le informazioni fondamentali ci sono e sono pure scritte in linguaggio chiaro. Ci sono anche belle idee, a partire dal grande quadro che spiega come le diverse tipologie di edifici sono disegnate nella pianta.
Tuttavia la disposizione dei pannelli non è chiara per nulla. E poiché in alcuni di essi si dà per scontato quel che è scritto altrove, i visitatori corrono il rischio di non connettere bene le informazioni tra loro, e quindi di non cogliere momenti fondamentali della lunga storia della Forma Urbis. Rischiano addirittura di perdere l’essenziale, che andrebbe invece chiarito molto bene anche con precise scelte grafiche (vedi il secondo principio aristotelico). È capitato anche a me: alla prima visita non avevo affatto notato quelle strisce rosse sul pavimento che ricalcano la forma delle lastre di marmo della Forma Urbis. La spiegazione sta nel pannello introduttivo che all’inaugurazione non avevo letto, ma è comunque inserita in un blocco di testo così piatto e compatto che mi piacerebbe sapere quanti davvero l’hanno notata.
Mostra Dacia: qual è il procedere logico del discorso?
Seconda visita: la mostra Dacia alle Terme di Diocleziano. È come sparare sulla Croce Rossa, diranno tutti. Però non vorrei parlare degli errori nelle didascalie che pur sono gravissimi, quanto piuttosto di qualcosa a mio avviso ancora più grave: il percorso di visita. L’avete compreso? Apparentemente è semplice perché ripercorre le vicende della Romania in oltre un millennio della sua storia. Nella realtà, però, la successione degli eventi non è chiara: manca un procedere logico di un discorso, e ci si perde. Non è certo facile trovare una quadra tra le tante genti che si sono susseguite in Romania nei secoli, ma un po’ di chiarezza si sarebbe potuta fare. La mostra conquista e stupisce, ma cosa rimane dalla visita oltre l’abbaglio di una bella gioielleria?
Ovviamente si tratta di una mostra ‘di cassetta’, come si suol dire, voluta e promossa dal governo rumeno in vari paesi d’Europa. L’hanno fatta loro e noi ce la siamo presa così com’era. Ma è giusto prendere le mostre come sono, senza chiedersi se e come si potrebbero adattare ai propri pubblici? Ho sentito altre persone commentare che avrebbero voluto sapere di più e orientarsi meglio tra tante meraviglie. E lamentarsi (giustamente) che a un mese dalla chiusura, il catalogo ancora non c’è.
Ma perché si continua a sfornare mostre a sé stanti, senza costruire attorno a esse, e con esse, un progetto comunicativo coerente? C’è chi lo fa e pure bene, e concepisce la mostra come un elemento (anche se il più eclatante) di un universo transmediale in cui ogni medium affronta un aspetto specifico e si incastra con gli altri a costruire un tutto coerente e potente. Un esempio per tutti è il progetto Aida figlia di due mondi che nel 2022 ha visto una mostra al Museo Egizio di Torino ma anche conferenze, reading, podcast, concerti, mostre pop-up, pubblicazioni frutto di ricerche sorprendenti, e sulla carta persino una rappresentazione dell’opera verdiana, se non ci fosse stato il Covid a impedirla. Però a fronte di cotanta e ragionata e coerente abbondanza, c’è chi continua a sfornare mostre e basta. Anche se nel XXI secolo, oramai non basta più.
Morire di freddo ammirando Calvino
Terza visita: la mostra su Calvino alle Terme di Caracalla. Mi è piaciuta tantissimo e mi sono divertita un mondo, incuriosita come mai. Però, in fondo, si trattava di pannelli con testi e foto. Una volta per una cosa così, si sarebbe fatto un bel libro. E invece si fa una mostra perché è di richiamo e, ovviamente, fa aumentare il prezzo del biglietto d’ingresso.
Ma si può fare una mostra così, che ti costringe a stare fermo in piedi a leggere e guardare per diverso tempo, all’aperto d’inverno? Ma ai poveri visitatori, secondo il primo principio aristotelico, si è pensato? Una cosa è vagare per le fantastiche Terme soffermandosi ogni tanto, ma in pratica sempre in movimento, un’altra è stare fermi a contemplare con interesse una mostra intera sotto pioggia, vento, bufera, freddo e tutto quel che l’inverno ci regala. Per il medesimo motivo, ho sempre guardato con diffidenza alle mostre al Colosseo. Però Caracalla è peggio!
A proposito: io il catalogo l’avrei comprato, per gustarmi Calvino con calma nel tepore del mio divano. Però anche in questo caso, il catalogo non c’è.
Il leopardo ruggisce ancora
Da tempo diciamo che il nostro paese, su molti aspetti compresa la curatela e comunicazione museale, è a macchia di leopardo. A fronte di esempi splendidi e all’avanguardia (perché il genio e la progettazione italici, quando vogliono, sanno farsi valere), c’è chi è rimasto al secolo scorso e non ha ancora fatto propria la dimensione collettiva e sociale del bene culturale. Non ha compreso che oggi serve dar vita a società della conoscenza vivaci e innovative che sappiano guardare lontano.
Da operatori della cultura, questo è il nostro compito principale, il nostro reale contributo alle comunità. A parole, lo abbiamo capito tutti. Nei fatti, pare che nel nostro paese le macchie scure di leopardo siano ancora parecchie. Io però sono ottimista: confido che presto si diradino sempre più.
Sei sempre puntuale e coerente che dire impoverimento generale di tutte le menti. io lavoro in archeologia preventiva da molto tempo e non puoi immaginare le contraddizioni quotidiane. Si resiste e si fa quel che si può ..,,
Ci si può anche dar da fare per cambiare le cose, però. Un passo alla volta, qualcosa si può fare. Gutta cavat lapidem