“Giudicare è un atto di giustizia”, diceva il famoso giurista Giuseppe Capograssi. Ma che succede se alla tutela della parte lesa si sostituiscono interessi politici ed economici? Succede che il reo diventa un mostro, gettato nell’arena del tribunale, sbattuto in prima pagina o sotto i riflettori di qualche pruriginoso talk show televisivo. E il processo penale diventa spettacolo.
Di questo si è discusso giorni fa al Museo Salinas di Palermo durante un convegno dall’esaustivo titolo Processo politico e politica del processo penale fra mondo classico ed esperienza moderna, lucida disamina di un argomento spinoso come quello della strumentalizzazione politica dei processi penali. In un continuo rimando tra passato e presente si sono alternati gli interventi di Flavia Frisone, docente di storia greca all’Università del Salento, Mario Varvaro, docente di diritto romano, e Paola Maggio, docente di diritto processuale penale, entrambi all’Università di Palermo, abilmente moderati dal giornalista Gian Mauro Costa.
Strumentalizzare le emozioni umane per scatenare le masse giudicanti: da Frine a Ruby
Un tema quanto mai attuale, certamente. Ma da quando? Praticamente da sempre, come emerge fin dalle prime battute della discussione. Una malattia cronica, endogena quasi, sembra colpire da sempre gli esseri umani e si manifesta nella loro naturale tendenza ad esprimere giudizi, anche se spesso e purtroppo in modo incompetente. Che sia dagli spalti di un tribunale o dal divano di casa propria, dall’antica Grecia all’ Italia contemporanea, poco importa. Quello che davvero conta, e di cui le masse giudicanti non hanno piena coscienza, è la facilità con cui avvocati e governi possono strumentalizzare e indirizzare questo giudizio per attaccare e distruggere gli avversari politici. Ma come?
Attraverso una formula rodata che, nutrendosi dei meccanismi psicologici delle masse, fa leva sulle emozioni umane, in particolare su quelle più potenti e primitive come rabbia e paura. Questa è stata e continua spesso a essere la chiave del successo di famosi processi, dalle Arginuse a Berlusconi, da Frine a Ruby, fino agli attuali fatti di cronaca nera, minuziosamente sezionati sulle reti televisive nazionali, che offrono agli spettatori una ‘caccia al mostro’ comodamente fatta in casa. Con gli avversari politici che ora come allora fanno da burattinai.
Quello delle Arginuse, per esempio, è un caso tristemente illustre di processo sommario intentato contro l’intera testa politica di Atene dalla fazione avversaria, che seppe sfruttare sapientemente il principio base della democrazia ateniese: il diritto di ogni libero cittadino a partecipare al potere giudiziario. Spettacolarizzando il processo, attraverso falsi testimoni e processioni di uomini mascherati che chiedevano vendetta per i propri cari morti in battaglia, gli antidemocratici spinsero così il popolo a decidere ‘liberamente’ per la condanna dei colpevoli, decretando quello che Flavia Frisone ha definito l’assassinio della democrazia: studiato a tavolino e messo in scena davanti alla città intera intenta, non a caso, a festeggiare le Apaturie, le feste della famiglia.
L’Ellade, poi, fece scuola nel mondo romano. Come non pensare alle famose arringhe di Cicerone contro Catilina o Verre, presentate da Mario Varvaro come esempio dell’esperienza processuale romana. Giurie non tecniche, fomentate da oratori che, spinti dai propri interessi politici e dalla brama di carriera, cuciono su misura un discorso sulla vita intera dell’imputato. Il risultato: un verdetto espresso sulla base di un giudizio intimo e complessivo sulla persona, non sul capo di imputazione. Una tendenza che, con il passare delle stagioni storiche, è degenerata nel processo inquisitorio che ben conosciamo.
E davvero ci sentiamo così distanti da quei ‘secoli bui’? In realtà anche ai giorni nostri il rischio della gogna – seppur mediatica – è dietro l’angolo. Un filo rosso sembra collegare la bella etèra Frine processata nel 350 a.C. e la giovane Ruby: un’accusa di promiscuità strumentalizzata allora dai filomacedoni, ora dagli antiberlusconiani per colpire politicamente gli uomini vicini alle due donne; un’assoluzione che, secondo i più, fu ottenuta con la minaccia di una punizione, allora da parte di Afrodite ora del politico potente.
Esiste una cura alla malattia dei processi?
È evidente che la funzione manipolativa del processo pubblico, sottolinea Paola Maggio, è tuttora il cuore del problema. Persone prive di competenza tecnica vengono indotte – al bisogno – a cercare dietrologie. Si viene così a creare una profonda spaccatura tra la verità raggiunta attraverso le forme processuali, che giustamente in mancanza di prove che motivino una condanna fanno cadere le accuse, e la verità avvertita dall’opinione pubblica e strumentalizzata dalle fazioni avverse.
Cosa fare allora? Le chiediamo. “Bisogna non perdere fiducia nelle forme processuali – il contraddittorio, l’imparzialità del giudice, la necessità di prove – unica vera garanzia contro gli arbìtri e gli abusi. Bisogna credere nell’essenza del giudizio” sostiene con convincente e lucida fede.
Per la patologia, la malattia dei processi, c’è quindi una cura: la partecipazione critica e priva di deformazione. Sta a noi sviluppare i giusti anticorpi. Speriamo di riuscirci, prima o poi, imparando qualcosa dalla storia.
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