“Buongiorno, sono un’archeologa. Posso parlarle un istante?”. “Ma certo! Però vado di fretta, ho un appuntamento a breve. Mi vuole accompagnare?”. “Volentieri. Io scavo a Rofalco, sa dov’è?”. “Sì, anche se non ci sono mai stata”. “Allora ad agosto ci verrà a trovare!”.
Istituti culturali del mondo intero, se avete bisogno di una brava PR non lasciatevi scappare Alessandra Cavalli, una tra le persone più empatiche, positive ed entusiaste che abbia mai conosciuto. Ha detto di avermi stalkerato al Salone del libro di Torino, e un po’ è vero. Ma è persona così piacevole che non le puoi dire di no. Ad agosto, io a Rofalco sono andata.
Ovviamente nel frattempo Alessandra mi aveva chiamata, invitata, mi aveva chiesto di aiutarla a pubblicizzare le loro iniziative. E io ho fatto tutto, perché Alessandra si era mossa davvero bene. Ho partecipato alla giornata conclusiva dello scavo, con visita prima al Museo di Farnese dove sono conservati gli oggetti trovati a Rofalco, e poi allo scavo. E ho scoperto un gruppo di lavoro fantastico. Ho trascorso solo poche ore con loro, ma sufficienti a capire che sono bravi, precisi, affiatati, organizzati. Hanno avuto un boom di visite in un luogo non facile da raggiungere e gestire, e non hanno fatto una piega. Si sono resettati in un attimo.
Cos’è Rofalco?
Ma dov’è Rofalco, e che cos’è? Non è un peccato non saperlo, e Alessandra è stata fortunata perché ero passata lì vicino proprio qualche mese prima. Rofalco è una fortezza costruita alla metà del IV secolo a.C. al limite del territorio della città etrusca di Vulci, per proteggerlo. I Romani incombevano, e infatti la fortezza ha avuto vita breve, solo una settantina d’anni. Poi verso il 280 a.C. è stata assalita, distrutta, incendiata. Le tracce di distruzione sono ovunque tra le case, le cisterne, i magazzini. Se non fosse per la sicura presenza di donne, diremmo che Rofalco è stata una sorta di Fortezza Bastiani. Dove alla fine, però, il nemico è arrivato.
Si trova all’interno della Selva del Lamone, un bosco aspro e selvaggio nato sopra una colata lavica. Una Riserva naturale di importanza enorme, sia geologica che botanica. Un luogo magico, realmente fatato. Dove però è difficile persino camminare, tra quei grandi massi lavici scivolosi. E a volte il bosco può essere davvero impenetrabile. Ma la fortezza, protetta da mura larghe anche sei metri, ha saputo sfruttare al meglio le asperità del terreno, e si affaccia sulla valle del torrente Olpeta dominando tutti i territori di Vulci e Tarquinia fino al mare. Insomma è stata costruita con ingegno, e in modo da avere riserve di acqua e viveri per lungo tempo. Ma capitolò. Era destino.
Il valore del volontariato
Lo scavo di Rofalco è gestito dalla storica associazione di volontariato Gruppo archeologico romano: dopo una prima esplorazione nel 1981, ha condotto campagne regolari dal 1996 a oggi. Quindi vi lavorano solo volontari, che tra l’altro si pagano tutti vitto e alloggio. Sono però tutti archeologi di mestiere, in ossequio alla famosa circolare del 2016 dell’allora Direttore generale per l’archeologia del Mibact Gino Famiglietti, che ha vietato l’ingresso nei cantieri di scavo ai non professionisti.
A suo tempo Archeostorie® pubblicò una lettera aperta di un gruppo di archeologi contro tale circolare, e i ragazzi di Rofalco sono una delle tante prove della sua insensatezza. Perché i Gruppi archeologici sono nati per sensibilizzare la gente al rispetto e all’interesse per i beni culturali, e da sempre sono formati da gente comune, da appassionati.
Generazioni di archeologi – ora stimati accademici – si sono appassionate all’archeologia nei campi dei Gruppi archeologici. Anche Alessandra è giunta a Rofalco a 15 anni trovando lo scavo sul web. La mamma non credeva che lei, così raffinata, potesse passare le sue giornate china a terra o – peggio – nel fango, e invece eccola qua: scava a Rofalco oramai da anni e ora un ambiente della fortezza è l’argomento della sua tesi di laurea in archeologia.
Dal 2016 a Rofalco sono costretti a rinunciare alle molte giovani Alessandre che potrebbero avere: gente che potrebbe dare una mano svolgendo le mansioni meno complesse, e al contempo imparare e appassionarsi al mestiere. Gente che tra l’altro, con la sua quota di partecipazione, potrebbe garantire uno stipendio a chi dirige e ha ruoli rilevanti nello scavo, cioè agli archeologi professionisti. Ci attendiamo davvero un’inversione di rotta, prima o poi.
Un gruppo coeso
Nel frattempo, però, a Rofalco non si sono persi d’animo. Il gruppo di lavoro è comunque numeroso, fatto da gente che lo frequenta da anni, che studia e pubblica Rofalco da anni, sotto la direzione dell’etruscologo Orlando Cerasuolo. Uno che sa dirigere. Che ha saputo circondarsi di persone serie e preparate, ma anche costruire un gruppo compatto, coeso, dove ognuno ha un compito per il bene di tutti. Certo, molte missioni archeologiche sono così, perché diversamente non camperebbero. Ma un’atmosfera bella come quella di Rofalco è comunque rara.
La PR Alessandra, in verità, in un punto ha peccato. A maggio a Torino si era impegnata a scrivere per il nostro Magazine la sua Archeostorie, a raccontare cioè come è diventata archeologa e perché, e qual è il suo modo di intendere questo fantastico mestiere. Non l’ha fatto, e un po’ l’ho fatto io ora per lei. Però poi a Rofalco ho strappato un’analoga promessa a tutta l’équipe: ho chiesto loro di raccontarci che cosa significa Rofalco per loro. Se non scrivono un testo per noi, tutti gli elogi di questo articolo svaniranno al vento. Attendiamo quindi di conoscere, dalla loro viva voce, le vere storie di Rofalco. Asap.
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