Tivoli (Roma), luglio 5 d.C.
Il sangue fresco brilla sotto le lucerne appese al soffitto. Le macchie spiccano sulla seta gialla come rose in un’aiuola di narcisi, impossibili da dissimulare.
Giove Ottimo e Massimo, signore onnipotente, invoca Valeria tra sé. Ha mal di testa, le mani sudate per l’ansia. Si guarda intorno nel bagno splendente di marmi e mosaici.
E sì che pensava di essere stata attenta! Quando si è sporcata? Come è potuto succedere? Nessuno, nessuno deve notare quelle chiazze, o la sua vita sociale sarà finita…
Deve trovare una soluzione, subito. Lo schiavo che l’aspetta fuori dalla porta sarà pure discreto e rispettoso, ma non è scemo: per quanto tenga gli occhi bassi, si accorgerà senz’altro di quelle tracce compromettenti. I tempi delle guerre civili sono finiti, per fortuna, e le macchie di sangue sui vestiti non sono più previste dalla moda romana.
Valeria respira a fondo per calmarsi. C’è un solo modo di cavarsela.
Socchiude la porta, mette fuori la testa. Lo schiavo accorre sollecito.
«Va’ a chiamare Marco Cornelio Balbo» ordina lei.
Lo schiavo sgrana gli occhi. «Devo portarlo… qui?»
«Sì, e fa’ in fretta.»
Lo schiavo china obbediente la testa, ma non si muove, tormentandosi le mani. Valeria sa benissimo quali scrupoli lo trattengono.
Un uomo celibe e una giovane vedova chiusi in bagno da soli, durante il banchetto in onore del nuovo console, con tutta la Roma che conta stipata nel triclinio… il pettegolezzo dell’anno. Ma chi se ne frega?
«Alla mia reputazione ci penso io» sbotta. «Non sono mica una Vestale. O forse pensi di essere la mia balia?»
Lo schiavo mormora delle scuse e batte rapidamente in ritirata.
Poco dopo torna in compagnia di un giovane biondo e allegro, vestito di una sgargiante synthesis verde ricamata d’oro che, due secoli fa, avrebbe fatto prendere un colpo a Catone il Censore. «Allora, cos’hai combinato stavolta?» le chiede con una risata.
«Non ho combinato nulla» risponde lei scocciata. «Ho solo bisogno di una palla per coprire una macchia sulla veste.»
«E non potevi chiederlo a uno dei tuoi schiavi? Ah, già…» Balbo si batte teatralmente la mano sulla fronte. «La scontrosa Valeria Proba non vuole domestici attorno!»
«Ti ricordo che è stata un’ancella a informare mio marito dei miei appuntamenti con Licinio Crasso» ribatte lei. «Viveva con me da quand’ero ragazzina, l’avevo sempre trattata bene, e alla prima occasione ha venduto i miei segreti per pochi sesterzi. Gli schiavi sono inaffidabili. Preferisco arrangiarmi, grazie tante.»
«Già, perché hai un amico paziente e fedele che ti aiuta a rimediare ai tuoi disastri…» Balbo ammutolisce d’un tratto. Lo sguardo gli è scivolato sulle macchie che deturpano la seta gialla, scarlatte, inequivocabili. Si stacca dallo stipite della porta e fa un passo indietro.
«Sì» sibila Valeria, al limite della pazienza. «È sangue. Ora vuoi aiutarmi, per favore?»
«Io… sì, certo» sussurra lui. «Ma… da quanto lo aspettavi? E chi è il padre? Non mi hai detto nulla!»
Valeria lo fissa per un lungo momento, senza parole, prima di passarsi una mano sul viso con un sospiro esasperato. Uomini, pensa. «Non sono incinta, razza di asino!»
«Oh. Oh, bene.» Balbo sembra sollevato, poi aggrotta la fronte. «Ti sei graffiata con la spilla?»
Valeria alza gli occhi al cielo. «No.»
«Ti sei sporcata con le salsicce della gustatio?»
«No.»
«Ma allora cosa…» Balbo si interrompe di nuovo e spalanca gli occhi azzurri ereditati dalla madre, originaria della Cisalpina. «Oh.»
«Ci sei arrivato, finalmente? Adesso portami qualcosa per coprirmi, ti prego. Ho lasciato la palla nella lettiga; è qui dietro l’angolo con i miei portatori, l’annunciatore e la scorta.»
Balbo se ne va senza protestare né prenderla in giro, segno evidente del suo profondo disagio.
Quando torna, dopo un tempo incredibilmente breve, le porge la veste senza guardarla negli occhi e subito si ritira ad aspettarla nel peristilio.
Inutile, medita Valeria mentre si avvolge la palla intorno al corpo con mano esperta; per quanto possano essere intelligenti, istruiti, spiritosi, trasgressivi, alla fine sono e restano uomini romani, schiavi dei loro pregiudizi, delle superstizioni e del mos maiorum tanto quanto i loro antenati…
Poco dopo riemerge finalmente dai bagni e torna al banchetto insieme all’amico, che le cammina accanto e chiacchiera disinvolto, ma evita di toccarle il braccio come fa di solito.
«Finalmente!» l’accoglie con scarso tatto Gneo Cornelio Cinna, il neo-console, appena la vede rientrare nel triclinio. «La festa languiva senza di te, splendida Valeria!»
«Mentre la mia assenza è passata del tutto inosservata» commenta Balbo, riaccomodandosi sul letto tricliniare.
Valeria lo imita con molta attenzione. Maledetti triclini, pensa tra sé. Quella posizione semisdraiata sul fianco è pericolosa per una donna nella sua condizione. Se solo potesse sedersi su una normalissima sedia di legno o di vimini, come quelle che usano i suoi schiavi, sarebbe più comoda e sicura di non sporcarsi di nuovo…
Un gong sonoro fa sobbalzare gli invitati. Quattro schiavi vestiti di pelliccia entrano nella sala trasportando a spalla un enorme vassoio d’argento con la portata principale: un cinghiale arrostito. Dalla bocca, spalancata in un urlo silenzioso, ruscella un fiotto di vino che va a scrosciare in un bacile d’argento, sorretto da un altro schiavo. L’effetto è molto realistico. Sembra che la povera bestia sia appena stata infilzata dalla lancia di un cacciatore.
Tutt’intorno alla sala, bambini travestiti da satiri danzano sulle note dei flauti.
«Che ve ne pare della creazione del mio nuovo cuoco?» chiede Cinna, fiero.
«Agghiacciante» risponde Valeria sinceramente.
Balbo le dà una gomitata.
«Ehm, volevo dire che è di grande impatto» si corregge lei in fretta.
«Gaia Sulpicia è quasi svenuta quando gli schiavi hanno servito la portata» conferma il console soddisfatto, senza notare gli sguardi eloquenti di Balbo e Valeria.
«Ai bei tempi i Romani mangiavano soltanto olive, formaggio e polenta di farro» brontola un senatore, capo della fazione più conservatrice del Senato. «E non perdevano tempo a fare teatro a tavola; si riempivano lo stomaco per tornare subito al lavoro nei campi!»
Valeria, che non ricorda di aver mai visto l’illustre senatore alzare un dito in vita sua, né nei campi né altrove, si morde le labbra appena in tempo per non farsi sfuggire una battuta pungente.
Volta la testa e cerca di concentrarsi sui musici, suoi danzatori e sui nani buffoni. Troppa roba tutta insieme, valuta tra sé con una smorfia. Troppo chiasso, troppa gente, troppo caldo e troppe essenze profumate, che fanno girare la testa…
«Hai una linguaccia ancora più pungente del solito» le sussurra Balbo. «Si può sapere cos’hai?»
Valeria non fa in tempo a rispondergli, perché Cinna, deciso a festeggiare il consolato con una conquista d’alto bordo, le offre una coppa di fichi e declama a gola spiegata: «Roma ti darà tante belle ragazze che potresti dire “questa città ha tutto ciò che esiste al mondo!”»
«Veramente siamo a Tivoli» ridacchia Balbo.
Valeria alza gli occhi al cielo, attenta a non farsi vedere. «Sei molto galante, nobile Cornelio.»
«Non essere così formale, mia cara. Stasera non sono il console: solo un vecchio amico accecato dalla tua bellezza.»
Vecchio senza dubbio, pensa lei, trattenendo una smorfia.
Cinna stacca lo sguardo da lei per rivolgersi a Balbo in tono di degnazione: «Che piacere vederti, cugino. Non ti sei dato molto da fare per la mia campagna elettorale… mi hanno detto che hai trascorso gli ultimi mesi a Baia.»
«Quale posto migliore per stringere alleanze politiche?»
Valeria ricorda con rimpianto quelle giornate spese tra banchetti, spettacoli e acque termali, e si lascia sfuggire un sospiro che richiama l’attenzione del console.
«Ah, sì» dice Cinna, compiaciuto. «Conosci già la bellissima figlia del senatore Lucio Valerio Barbato?»
«La conosco così bene, cugino, da ammonirti a fare attenzione. La nostra Valeria non è una di quelle fanciulle tutte casa e telaio, capisci cosa intendo? Abbiamo avuto lo stesso maestro di retorica, da ragazzi: non mi sono mai ripreso dall’umiliazione di quei dibattiti.»
Il sorriso del console vacilla. «Retorica? Una donna?»
«Già, i tempi cambiano!» dice Balbo. «Ho sempre pensato che quel poveraccio di suo marito, alla fin fine, si sia pentito di aver sposato una ragazza moderna, sempre pronta a rispondergli per le rime e mai a ubbidire: il cuore gli ha ceduto appena un anno dopo le nozze.»
«Aurelio era malato da tempo» dice Valeria gelida.
«E tu gli hai dato il colpo di grazia, cara. Cose che capitano a sposare un vecchio, per quanto schifosamente ricco.»
Valeria gli scocca un’occhiataccia e spiega al console: «Marco intende dire che ho la tendenza a parlare chiaro.»
«Troppo chiaro!»
«Preferiresti frequentare una matrona all’antica, che non beve vino, non parla in pubblico ed esibisce come gioielli soltanto i suoi figli?»
«Io no. Ma Gneo è un tradizionalista, non è vero, cugino?»
«”Marco“?» ripete Cinna con disappunto. «Voi vi… ehm, vi conoscete così bene?»
«Non in quel senso» dice Balbo. «Siamo amici d’infanzia. Le ville delle nostre famiglie, a Baia, si trovano sullo stesso tratto di costa. È grazie a lei che tutti laggiù mi chiamano ancora Lenticula, lenticchia, per via di queste macchiette sul naso.»
«Tu mi tiravi i capelli ogni volta che il maestro si girava dall’altra parte» si difende Valeria.
«Oh, dai. La coda di cavallo è fatta apposta per essere tirata.»
La faccia del console assomiglia a quella di un uomo che ha appena bevuto d’un fiato un’anfora di garum piccante.
«Perciò, Gneo» conclude Balbo «non pensare che questa ragazza si lasci impressionare dalla tua bella toga orlata di porpora e da qualche complimento mieloso.»
Cinna schiocca le labbra e scuote la testa con un sorrisetto saputo. «Sei giovane e ingenuo, caro Marco. Tutte le donne sono affascinate dal potere. Che si concedano o si neghino, amano comunque essere corteggiate, dice il poeta!»
«Dipende dal corteggiatore» mormora Valeria a denti stretti.
La sua pazienza è al limite. Inghiotte una bella sorsata di Falerno per darsi la forza di sopportare quell’idiota pomposo e le sue citazioni trite e ritrite.
Ma il console, con la sicumera del politico di successo, le toglie la coppa di mano, la sfiora con le labbra e continua inarrestabile, fissandola negli occhi: «Bramiamo sempre quel che è proibito e desideriamo ciò che ci viene negato…»
La risposta le scivola fuori dalle labbra prima che lei possa trattenerla.
«Un soldato vecchio è ridicolo, un amore senile anche.»
Tutt’intorno a loro cala il silenzio. Poi i commensali del triclinio accanto scoppiano a ridere, una risata che in un attimo si propaga a tutta la sala.
Balbo si copre la faccia con una mano. «Addio, cursus honorum! Addio alla mia carriera politica!»
«Ma quale carriera vuoi fare, spendi tutto il tuo patrimonio in vestiti ed etere di lusso» lo rimbecca Valeria. Lancia un’occhiata al console, che sta diventando rosso come una barbabietola, e si alza accampando il bisogno di una boccata d’aria fresca.
Mentre esce dalla sala insieme a Balbo, sente il senatore nostalgico della polenta di farro dire a un collega: “Se fosse mia moglie, saprei io come rimetterla a posto”.
«Hai visto la faccia di Cinna?» ride Balbo appena raggiungono il peristilio, lontani dal vociare degli invitati, dalla musica e dalle risate.
Valeria si china ad annusare un cespuglio di rose di Paestum. Il movimento le provoca una fitta di mal di schiena. «Non era tanto la sua faccia a disturbarmi, quanto le sue citazioni. Sai quante volte ho sentito recitare gli stessi versi a un ricevimento, a teatro o sulle gradinate del circo? Ovidio di qua, Ovidio di là. Non si sente altro dappertutto. Che noia!»
«Non dirmi che una donna colta e aggiornata come te legge ancora Catullo e Cornelio Gallo!»
«Sicuramente li trovo meno irritanti di Ovidio: parla delle donne come se fossero un branco di oche senza cervello, buone solo a mostrare le gambe e farsi incantare da due paroline dolci.»
«In effetti ho l’impressione che daresti del filo da torcere perfino a lui. Non te l’hanno mai presentato?»
«Sì, più volte. Un conversatore brillante, un commensale impeccabile, un poeta di talento, ma un uomo davvero ingenuo.»
L’espressione di Balbo si fa incuriosita. «Cosa vuoi dire?»
«Sono pronta a scommettere che la sua fortuna non durerà molto. Fossi in te, gli starei alla larga.»
Valeria si siede sul bordo di una fontana a forma di conchiglia, sotto lo sguardo corrucciato di una Venere di marmo. Si sente accaldata e a disagio.
Avrei fatto meglio a restare in casa.
Mette una mano sotto lo zampillo d’acqua fresca e si bagna la fronte, sperando di bloccare l’emicrania sul nascere. «Ricordi Catullo? “Non mi sforzo troppo di piacerti, o Cesare“? Be’, avrebbe fatto bene a sforzarsi, invece. Se non fosse morto così giovane, forse si sarebbe reso conto che le parole sono armi da maneggiare con cura se si vuole evitare di tagliarsi. E Ottaviano Augusto è molto meno tollerante di suo zio.»
Balbo la fissa. «Quando ti sento parlare così mi chiedo perché le donne non possano impegnarsi in politica. Te la caveresti meglio di molti dei nostri magistrati.»
«Già» dice Valeria asciutta. «Abbiamo questa strana tendenza ad ascoltare e pensare prima di parlare.»
«Oh, piantala!» sbuffa Balbo. «Non attaccare con la solfa delle povere donne sottomesse. Una volta, forse. Adesso potete partecipare ai banchetti, sposarvi senza ricadere sotto la tutela del marito, chiedere il divorzio, perfino ereditare dai vostri padri… cosa volete ancora?»
Valeria lo guarda come se lo vedesse per la prima volta. «Lascia perdere» dice dopo un lungo silenzio. «Ho mal di testa, tutto qui.»
«La regina di tutte le scuse» commenta Balbo malizioso, e le tende la mano. «Forza, torniamo dentro a divertirci. Ci stiamo perdendo tutta la festa!»
Valeria alza lo sguardo al cielo pieno di stelle. È una serata piena di pace. Il giardino vibra del canto dei grilli. Fosse per lei, resterebbe lì tutta la notte.
Ma non può. Chissà quanti pettegolezzi sul suo improvviso malore stanno già circolando dentro quella sala piena di malelingue.
Con un sorriso malinconico, stretta all’amico, si rituffa nel caos e nel frastuono del banchetto.
Le citazioni da opere di Ovidio:
Tot tibi tamque dabit formosas Roma puellas, ‘Haec habet’ ut dicas ‘quicquid in orbe fuit.’
Ars amatoria I, 55-56
Quae dant quaeque negant, gaudent tamen esse rogatae.
Ars amatoria I, 345
Nitimur in vetitum semper cupimusque negata.
Amores III, IV, 17
Turpe senex miles, turpe senilis amor.
Amores I, IX, 4
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