Si chiama Classico pop e mantiene le promesse. È una bella mostra – a Roma a Palazzo Massimo e alla Crypta Balbi – per la cura di Mirella Serlorenzi con Marcello Barbanera e Antonio Pinelli – che spiega come la produzione artistica in serie non sia solo dei nostri giorni, ma di sempre. Siamo sempre stati ‘pop’, se con questo aggettivo intendiamo quella forma d’arte che ha fatto della serialità il suo paradigma. Da che mondo è mondo, ci sono sempre stati degli Andy Warhol che hanno fatto della ‘riproducibilità tecnica’ una bandiera.
E la mostra tutta è veramente ‘pop’. A Palazzo Massimo, soprattutto, installazioni colorate mostrano le opere antiche come non le abbiamo mai viste. Inserite in un contesto più dinamico del tradizionale allestimento paludato, rivelano tutta la loro anima ‘pop’. Perché erano fatte in serie anche loro, a partire dai moltissimi oggetti in bronzo o argilla – anche raffinati – che si realizzavano a partire dal medesimo stampo.
Viva le copie
Non mancavano, ovviamente, i veri capolavori, i pezzi unici, ma che dire di tutte le copie che i Romani fecero fare dei capolavori greci, per decorare le loro ville e giardini? Proprio come oggi gli americani e i cinesi ordinano copie in marmo del David di Michelangelo. Così noi moderni, per capire come fossero davvero gli originali antichi oramai perduti, ci siamo trovati a mettere insieme ciò che resta delle copie. È il celebre Discobolo di Mirone a farci cogliere, in mostra, questo meccanismo.
Tuttavia il Discobolo serve anche a raccontare come, prima che le statue antiche venissero identificate correttamente, alcune loro copie sono state interpretate e restaurate come tutt’altro. Infatti ad alcuni busti di Discobolo, prima della sua corretta identificazione a fine Settecento, sono state aggiunte le altre parti del corpo ottenendo figure come, per esempio, uno dei figli di Niobe uccisi dalle frecce di Apollo e Artemide. Insomma da una figura tesa nello sforzo, ruotando il busto si è ottenuta una figura morente.
Che dire, poi, di tutti quei capolavori moderni che hanno tratto ispirazione dall’antico? Specie dopo che Johann Winckelmann ha decretato la superiorità dell’antica arte greca di cui noi possiamo solo essere epigoni. Che dire, insomma, di Antonio Canova? Ma non solo: le stese immagini e i medesimi schemi compositivi, magari ruotati o riadattati o attualizzati, sono giunte fino ai nostri giorni e non ci abbandoneranno forse mai.
La gente affolla le installazioni di Palazzo Massimo. Stupisce, si diverte, scatta selfie. Coglie sicuramente il senso generale della mostra, ma forse non le sue diverse sfaccettature. Pause di luce troppo brevi tra una proiezione e l’altra, non lasciano tempo sufficiente ad ammirare le opere e leggere i pannelli che ne spiegano il senso. E sono, tra l’altro, pannelli scritti con un linguaggio assai complesso.
Volpato, padre del Classico Pop
Ma il vero senso della mostra si coglie, in realtà, alla Crypta Balbi dove è narrata la scoperta dell’atelier di Giovanni Volpato, l’inventore del moderno souvenir. Da qui la mostra ha preso spunto: durante uno scavo archeologico, realizzato in occasione del restauro di un edificio a via Urbana a Roma, sono venuti alla luce i resti di un laboratorio di porcellane che, a fine Settecento, realizzava riproduzioni di oggetti antichi e creazioni moderne ispirate all’antico.
Ovviamente Volpato realizzava i suoi souvenir per la clientela facoltosa del Grand Tour, e quindi erano estremamente raffinati, anche se fatti in serie. E non mancarono a Volpato le commesse importanti di re e imperatori: lui sapeva come e cosa proporre e realizzare, perché ognuno potesse avere un po’ di sapore d’Italia antica in casa propria. Il suo gusto era la sua forza, nonché l’essere diventato un po’ il maître à penser della Roma dell’epoca. Fu lui a introdurre Canova nei giusti ambienti.
Il cerchio si chiude: con Canova e Volpato, una mostra rimanda all’altra. Però le sale della Crypta sono veramente una sorpresa. Una chicca, un piccolo gioiello. Con statuine e scarti di lavorazione trovati nella manifattura, disegni dello stesso Volpato e di Piranesi, e altre porcellane e oggetti e arredi in serie ispirati all’antico di Richiard Ginori e Fornasetti. E video e installazioni che magnificano il tutto.
Anche qui, però, c’è scollamento tra i video – deliziosi – e i pannelli, un po’ criptici per i più. Inoltre la mostra non è segnalata all’interno del museo, e il visitatore ci capita per caso. E la posizione dell’atelier su via Urbana non è indicata in alcuna mappa, mentre sarebbe stata molto utile. Pare insomma che, in entrambe le sedi, i curatori della mostra non si siano messi a sufficienza nei panni dei visitatori. Si siano concentrati nel raccontare e stupire, trascurando alcuni dettagli. L’obiettivo della mostra è comunque brillantemente raggiunto. Sarebbe bastata solo qualche piccola attenzione in più.
Il classico si fa pop
Di scavi, copie e altri pasticci
Roma, Crypta Balbi (via delle Botteghe Oscure, 31)
e Palazzo Massimo (largo di Villa Peretti, 2)
Fino al 7 aprile 2019
info: www.coopculture.it
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