Archeologia e musei hanno a che fare con la distruzione: si occupano di distruzione e concorrono alla distruzione. È questo il tema controverso della mostra Anche le statue muoiono ospitata al Museo Egizio di Torino fino al 6 gennaio. Cerca di chiarire un dubbio drammatico: le istituzioni museali sono complici attive della morte delle opere che conservano o rappresentano l’ultimo appiglio per salvarle da fattori ambientali, conflitti, incuria e mancanza di risorse? La storia di ogni oggetto si compone di una molteplicità di pagine, e archeologia e musei sono autori delle ultime. Cerchiamo di capire che ruolo giocano.
Storia degli oggetti: la materia
Partiamo dall’inizio: un blocco di pietra calcarea. Forse una massa grezza ha poco da dirci. Ma immaginiamo che venga raccolta, scolpita, dipinta, caricata di significati e valori simbolici. Quello stesso blocco calcareo ha ora un’altra forma: è la Venere di Willendorf, capolavoro dell’arte paleolitica.
Un ammasso di argilla rimarrebbe pressoché immutato se un artigiano non lo trasportasse nella propria bottega e vi dedicasse ore di minuzioso lavoro per trasformare quel volgare cumulo informe nell’Anfora del lamento funebre, splendido esemplare di arte geometrica greca. Lo stesso si può dire della pietra della Stele di Rosetta, del marmo del Partenone o, più prosaicamente, del ferro impiegato per fabbricare le prime lame o dell’argilla per modellare contenitori per unguenti.
La materia grezza rappresenta il primo capitolo della storia di ogni oggetto creato dalle mani dell’uomo dalla preistoria a oggi.
Storia degli oggetti: l’uso
Il capitolo successivo ne narra l’impiego. Proviamo a immaginare l’intensità della preghiera di un egiziano antico di fronte a una statua – custode dell’anima di chi rappresenta –, o la ricerca febbrile di una mano longobarda nel raggiungere la propria spada, o la vanità di una donna etrusca intenta a decorarsi d’oro, o il sudore di uno schiavo che gocciola su lastre di pietra. Ogni azione, invocazione, contatto contribuisce a tessere la trama narrativa di un oggetto, ne aumenta il valore personale e collettivo, costruisce intorno a esso un’identità in cui si rispecchiano la coscienza personale ma anche quella collettiva di un popolo.
Storia degli oggetti: degrado, distruzione, cambiamento
Non tutti i popoli, però, hanno condiviso gli stessi valori e credenze. Se per alcuni oggetti il passo successivo del racconto sono l’abbandono e il degrado dovuto allo scorrere del tempo, per altri si parla invece di un nuovo intervento dell’uomo in forma di riuso, di nuove funzioni, e anche di distruzione intenzionale.
Riappropriarsi degli oggetti permette loro di tornare in vita e di caricarsi di nuovi significati, talvolta contrastanti con quelli precedenti, che portano poi a nuove appropriazioni culturali, a nuovi valori, a nuovi degradi. La storia è costellata di esempi in questo senso: damnatio memoriae nei confronti di persone e divinità hanno sfregiato sculture e manoscritti, il riutilizzo di materiali da costruzione ha portato al disgregamento di abitazioni e templi, l’iconoclastia protestante ha incoraggiato la distruzione di immagini religiose, il gusto collezionistico di fine Ottocento ha provocato profonde alterazioni nei manufatti rinvenuti durante le campagne di scavo.
Storia degli oggetti: archeologia e musei
L’archeologia incide pesantemente sulla storia degli oggetti. Lo scavo altera e contestualmente distrugge il contesto in cui si trovano i reperti, destinandoli a proseguire il proprio viaggio nel tempo in maniera inaspettata. Partendo dalle raccolte rinascimentali, passando per le wunderkammer settecentesche e approdando nei musei contemporanei, reperti di ogni epoca hanno aggiunto pagine alla propria storia. Spogliati della funzione originaria e dei valori cultuali e culturali, sono diventati simboli di un passato che non esiste più e che non è più in grado di attribuire a quegli oggetti un valore identitario.
Il diffondersi del concetto di patrimonio culturale ha incollato a ogni reperto un carattere universale, l’idea che i beni culturali appartengano all’umanità intera e non a un singolo popolo. È proprio il sentimento universalistico ad aver incoraggiato l’impoverimento culturale colonialista e lo spostamento di manufatti in epoca contemporanea dai paesi meno sviluppati ai musei occidentali, provocando, di fatto, una distruzione sia materiale –come nei casi di reperti tagliati o modificati per accontentare i collezionisti– sia immateriale, rappresentata dalla perdita del contesto culturale e fisico.
Degrado, distruzione e cambiamento –intenzionali o meno– rappresentano un capitolo della vicenda di ogni oggetto, ma sono difficilmente tollerabili ora che l’umanità si è presa in carico l’onere della conservazione e della valorizzazione di tutti i beni culturali. Se da un lato si tratta di un sentimento onorevole, in che posizione si collocano archeologi e musei, responsabili della decontestualizzazione dei reperti? Fino a che punto si può accettare il “deterioramento” di un oggetto?
Anche le statue muoiono
La mostra Anche le statue muoiono affronta il tema del conflitto e della distruzione del patrimonio culturale analizzando in maniera sfaccettata e limpida il ruolo dell’Occidente, dei musei e dell’archeologia nei confronti del passato. Oggetti antichi dialogano con opere contemporanee soffermandosi sulla perdita causata per mano dell’uomo in diverse epoche storiche, come nel caso della stele di Amenhotep (XV-XIV secolo a.C.) in cui volto e nome del committente furono cancellati a colpi di scalpello, o della statua di Upuautemhat (XX-XIX secolo a.C.) i cui occhi realizzati in materiali preziosi furono strappati da antichi saccheggiatori. Di fronte a reperti in frantumi lo spettatore è spinto a domandarsi perché risulti più comprensibile lo sfregio su una statua commesso per motivi religiosi duemila anni prima di Cristo, rispetto alla distruzione di reperti nel museo di Mosul per mano dell’Isis.
L’arte contemporanea in mostra tenta di sciogliere i dubbi visualizzando il controverso legame tra storia antica e contemporanea. Sono immagini semplici quelle proposte da Simon Wachsmuth in Signatures (2007-2012): quaranta fotografie immortalano le firme incise sulle mura di Persepoli tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo da parte di archeologi, studiosi e viaggiatori. I nomi scavati simboleggiano il potere economico e politico dell’Occidente, rappresentato invece in Fragments II (2016) di Ali Cherri da un rapace che si avventa sulla preda. Nel mirino degli artisti compare anche la potenza devastatrice dell’Isis, esorcizzata da Morehshin Allahyari in Material Speculation: Isis (2015) grazie alla ricostruzione mediante una stampante 3D di alcuni reperti distrutti. Ci vuol dire che forse solo la sostituzione e la copia possono curare la perdita.
Ruolo dei musei
Chiudere le opere nei musei è come metterle in gabbia. Una gabbia dorata, certo, ma pur sempre senza via di fuga. Probabilmente, però, è la soluzione più facile da accettare. Esposti alla furia degli elementi e alla mano dell’uomo, i reperti antichi rischiano di terminare il proprio racconto in maniera improvvisa e brutale, interrompendo di colpo il flusso narrativo che ognuno di noi si aspetta da loro. Come un uccello in gabbia non è più libero di volare, così gli oggetti nelle teche perdono la loro libertà. Tuttavia, osservandoli ogni giorno e prendendocene cura, li salviamo anche da un destino ignoto.
Non è detto che le rovine debbano essere condannate a sgretolarsi e che il passato debba necessariamente diventare polvere. I musei permettono alle statue di non morire o, per lo meno, di sopravvivere come simboli di ciò che è stato. La musealizzazione dei beni culturali sembra l’epilogo del racconto millenario degli oggetti. Resta da chiedersi se si tratti di un finale lecito.
Anche le statue muoiono
Torino, Museo egizio
fino al 6 gennaio 2019
dal lunedì al venerdì 8.30-19
sabato 8.30-13
info 0114406903; info@museitorino.it
0 Comments