Il prezioso coperchio in bronzo con due sfingi che si affrontano è solo una delle meraviglie che si ammirano a Prima di Como. Nuove scoperte archeologiche dal territorio, la mostra organizzata in una delle vie del centro della città lariana, nella chiesa paleocristiana di San Pietro in Atrio, e visitabile gratuitamente fino al prossimo 10 novembre.
Organizzata e curata da Lucia Mordeglia della Soprintendenza locale e Marina Uboldi dei Musei Civici di Como, con la collaborazione di Stefania Jorio e Mimosa Ravaglia, ha l’obiettivo di raccontare al pubblico i secoli di storia della città prima dell’arrivo dei Romani.
Infatti Como, così come il vasto territorio tra i fiumi Po, Serio e Sesia, è stato abitato da popolazioni celtiche della cosiddetta cultura di Golasecca, che prende il nome dal paese nel varesotto dove ne sono stati individuati i primi resti.
La mostra ha l’obiettivo di ‘restituire’ al pubblico i reperti rinvenuti negli ultimi dieci anni di scavi nel territorio comasco, alcuni dei quali di grande importanza, illustrando gli studi più recenti svolti sugli ultimi materiali scoperti ma anche su altri già conosciuti,come per esempio il Carro della ca’ Morta di cui viene presentata in mostra anche una ricostruzione 3D.
L’obiettivo principale è mostrare ai comaschi, prima che a tutti gli altri visitatori, perché siano stati eseguiti scavi nel loro territorio, cosa si sia trovato, quale sia l’importanza dei reperti scavati, e quali siano stati i progressi nella ricerca. Come si legge infatti sul pannello d’ingresso, “tra le finalità della ricerca archeologica, un posto di rilievo deve essere riservato alla restituzione – ai cittadini, al pubblico, a chiunque sia interessato – del proprio passato e più in generale della storia e delle storie di chi ci ha preceduto”. L’intento didattico-divulgativo è persino dichiarato.
Linguaggio: forza e debolezza di Prima di Como
Il linguaggio della comunicazione è sicuramente uno dei punti di forza della mostra: coniuga semplicità e correttezza delle informazioni e ci è piaciuto veramente molto. I tanti pannelli che si snodano lungo il percorso espositivo costituiscono un piacevole storytelling che consente al visitatore di immergersi nei diversi aspetti della società golasecchiana (dalla sfera della morte – preponderante – a quella del mondo dei vivi, dalla sfera religiosa a quella economico-produttiva) ma anche di comprendere meglio il lavoro dell’archeologo e del restauratore.
Unica pecca della mostra è la scelta di non tradurre pannelli, cartellini e perfino i cataloghi almeno in inglese. Eppure, Como è città turistica: specialmente nei weekend, le vie del centro sono frequentatissime non solo dagli abitanti del comasco, ma anche da tanti stranieri. Scegliere di non redigere i materiali di comunicazione anche in inglese significa di fatto tagliare fuori una fetta di pubblico che certamente sarebbe stato catturato dalla narrazione.
Gli imperdibili
La mostra è piccola, ma cela autentici tesori. Tra gli ‘imperdibili’ ci sono innanzitutto i due corredi delle tombe 2 e 3 della necropoli di Grandate, rinvenute nel 2011 durante gli scavi di archeologia preventiva per la costruzione della strada Pedemontana e datate alla seconda metà del VI secolo a.C. Sono tombe ricche di oggetti in bronzo, come il bellissimo coperchio di situla decorato a sbalzo, e di gioielli, vasi per offerte su piedistallo, recipienti delle forme più varie. Di alcuni pezzi è stato proposto un restauro su supporto in plexiglass per migliorarne la leggibilità.
E poi, naturalmente, c’è il Carro della Ca’ Morta, rinvenuto a Lazzago nel 1928 e conservato oggi nel Museo Civico di Como. Le curatrici hanno voluto concedergli ampio spazio, con tanto di videoinstallazione che ne propone una ricostruzione 3D, per dare risalto alle nuove ricerche sul carro condotte negli anni 2013-2016 dall’archeologo Bruno Chaume dell’Università della Borgogna.
Chaume ha messo in evidenza la parentela tra questo carro (che merita davvero di essere ammirato dal vivo) e i carri dell’area culturale halstattiana del centro Europa, ipotizzando che la defunta a cui apparteneva potesse provenire da quelle zone, e suggerendo così una possibile alleanza tra clan.
È dunque una mostra da non perdere, perché illustra chiaramente come dovrebbe essere realizzata un’esposizione che tiene davvero conto del pubblico. E se andate a Como per la mostra, approfittatene poi per visitare anche gli altri beni archeologici della città, oltre al Museo: il Parco della Spina Verde, per esempio, o il Circolo dell’Ospedale Sant’Anna all’area delle terme romane di Viale Lecco e Porta Pretoria.
0 Comments