Baratti, seconda metà IV secolo a.C.
Chissà come lo hanno accompagnato alla tomba. Un piccolo corteo, due o tre persone, nell’alba livida di un giorno qualunque. I volti scavati e grigi, esausti per la fatica, forse impauriti per quei pochi attimi sottratti al lavoro. E i piedi in ceppi, le stesse catene che portava anche lui. Un corteo silenzioso di schiavi che accompagna al luogo del riposo eterno chi in vita non ha riposato mai.
L’Uomo in Ceppi di Baratti. Non sappiamo il suo nome, ma raramente il tempo conserva i nomi degli sconfitti. Lui doveva essere stato sconfitto dalla vita prima ancora di essere chiuso in quella tomba sulla spiaggia. Veniva da lontano, dall’Africa. Un gigante dalla pelle scura, dagli occhi d’ebano, giunto chissà attraverso quali rotte in quell’angolo di Etruria. Forse un prigioniero catturato in qualche battaglia. Le sue membra possenti, la sua stazza massiccia avevano determinato il suo destino. Schiavo, i piedi rinchiusi in catene che dai piedi poi erano connesse con striscie di cuoio ad un collare, per rendergli possibile lavorare con le mani, ma liberarsi mai. Una bestia, condannata a lavorare il minerale di ferro estratto dalle miniere fino all’ultimo alito di vita.
Cattivi padroni, gli Etruschi. Amanti della bella vita, del vino, dei banchetti, ma spietati e crudeli con i nemici, i prigionieri, i servi. La loro ricca civiltà gaudente poggiava sulle lacrime di quanti venivano deportati nelle miniere, a spaccare a una a una le pietre per ricavarne i metalli preziosi, il ferro per le spade, gli ornamenti scintillanti degli scudi e delle corazze.
Era uno di questi sventurati, l’Uomo in Ceppi di Baratti. Venuto da lontano per morire solo, stremato dal lavoro e dagli stenti.
Chissà se i suoi occhi si sono voltati verso il mare un’ultima volta, cercando quel lontano orizzonte da cui proveniva. Chissà se fra i fumi dell’Elba e le nebbie marine avrà sognato le spiagge assolate della sua terra. Chissà se nelle chimere e negli altri animali fantastici che decoravano i vasi e le case e templi dei suoi padroni avrà riconosciuto i profili delle belve che aveva conosciuto da bambino, al suo paese natio. Chissà quante volte avrà ricordato la passata libertà mentre la morsa dei ceppi gli ricordava la miseria presente.
Un piccolo corteo, in un’alba livida, verso una misera tomba. Schiavi con i piedi chiusi in ceppi, che camminano a stento, lasciando orme pesanti sulla sabbia. La terra si chiude sull’Uomo in Ceppi di Baratti, i compagni piangono quella sua vita così sventurata. Nessuno sembra destinato a ricordarsi mai più di lui, che non ha famiglia, che non ha parenti, che non ha nemmeno nome. Nessuno può mai immaginare che millenni più tardi, quando non ci saranno più traccia e memoria dei suoi padroni, e il loro nome sarà perduto nella polvere della storia, il suo scheletro emergerà di nuovo, per noi, per raccontarci la sua vicenda. Ancora con le caviglie strette dalle catene e le orbite ormai vuote a cercare la libertà.
Bello. Non so dire altro. Ma quanti schiavi…