Eppure si è giunti a febbraio 2016: i lavori sono iniziati con la presenza di un archeologo incaricato dal Comune, con il compito di segnalare eventuali rinvenimenti alla Soprintendenza. E al primo colpo di ruspa nella parte franata, sono emersi subito dei blocchi di arenaria dall’andamento semicircolare, probabili resti di una delle torri circolari della cinta. Gli scavi furono sospesi in attesa di approfondimenti, e si trasferì il lavoro in un altro tratto di strada dove doveva essere posizionato il tubo per lo scolo delle acque, ma emersero altri blocchi di arenaria. Altra sospensione. E così per altre due volte. Così alcuni cittadini entrarono nel cantiere scattando foto e girando video della trincea e dei saggi aperti, e pubblicando tutto su una pagina Facebook. Si parlò di distruzioni, demolizioni, muri ricoperti da tubi e da cemento. Mentre la Soprintendenza assicurava che nessun tratto di mura era stato demolito per il passaggio del tubo, e nessuna struttura muraria era stata coperta. Al contrario, in ogni tratto di mura rinvenuto si stava progettando un ampliamento dell’indagine archeologica.
Dopo interrogazioni parlamentari e un esposto alla Procura della Repubblica di Vibo, in aprile giunse in città Gino Famiglietti, allora Direttore generale per l’archeologia del Ministero ma anche Soprintendente archeologo per la Calabria. Firmò con il Comune un verbale che prescriveva le indagini di archeologia preventiva in corso d’opera, e rimandava la decisione sul da farsi in base al loro esito. Così i lavori proseguirono scoprendo altri tratti di muro di cinta, e conseguentemente si alzarono ancor più alte le voci di chi chiedeva che le “nuove” mura rinvenute non venissero reinterrate. A settembre si costituì il Comitato per chiedere di studiare un percorso alternativo per la via del cimitero e di includere la ultime scoperte nel costituendo Parco archeologico. Mentre, al contrario, Comune e Soprintendenza studiavano soluzioni per deviare il percorso del tubo in modo da non danneggiare le mura: per concludere insomma i lavori documentando le scoperte e ponendo finalmente il vincolo con competenza, ma poi ricoprendole, almeno temporaneamente (vedi i comunicati qui e qui).
Così si è giunti a oggi con due fazioni che si affrontano. Ma la domanda fondamentale è: Vibo possiede le risorse per cancellare una strada storica dall’urbanistica della città, inventare e sistemare un nuovo percorso per accedere al cimitero, creare nuovi accessi alle proprietà esistenti su via Paolo Orsi, rimuovere e spostare i sottoservizi della via (Enel e acquedotto, che negli anni pare abbiano intaccato pesantemente le mura), eseguire uno scavo archeologico di tutta la strada in estensione con metodo stratigrafico, restaurare e consolidare le strutture rinvenute, pensare a eventuali coperture e a un nuovo sistema di regimazione delle acque, realizzare un idoneo impianto di illuminazione e di videosorveglianza, un nuovo percorso di visita con relativa pannellistica, e chissà che altro si renderà necessario? Probabilmente no, o almeno non al momento. In futuro magari si potrà, redigendo con calma un progetto ponderato e da tutti condiviso. Nel frattempo, forse è davvero preferibile conservare e tutelare al meglio i tratti di mura individuati – peraltro tutti di modesta entità, limitati alle fondamenta o poco più – e completare la strada al più presto con interventi reversibili. E pensare magari a un percorso virtuale che anticipi e accompagni il visitatore all’area archeologica delle Mura greche. Salvare insomma la conoscenza, ma al contempo riportare la via al suo sano decoro.
È del resto una prassi abituale, quando si rinvengono tracce d’antico in aree urbane. Non sempre è possibile o merita conservarle a vista, anche perché la conservazione ha un costo che la nostra società spesso non è in grado di sostenere. Perché dunque lanciare appelli e proclami, invece di trovare con il dialogo una soluzione che metta d’accordo la cittadinanza intera? Il dialogo ha prevalso per esempio a Capo Colonna, dopo che per mesi le polemiche avevano infiammato gli animi. Ci auguriamo che avvenga anche a Vibo. Tuttavia oramai, anche se la soluzione si dovesse trovare, la voce si è sparsa ed è quella che rimane poi impressa nell’immaginario collettivo. Tutti noi oggi quando si parla di Capo Colonna immaginiamo una colata di cemento, e mura urbiche devastate quando si nomina Vibo. Ciò non giova di certo all’immagine delle città e della regione tutta. La Calabria non merita questo. La denuncia è uno strumento legittimo ma va usato con ponderazione. In un mondo come il nostro dove basta nulla per accendere scintille, rischia di diventare un autentico boomerang.
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