Si dice che tutto dipende dalle aspettative. Ecco, forse avevo aspettative sbagliate, perché il 23esimo incontro annuale della Associazione europea degli archeologi (EAA) a Maastricht, non è stato quel che credevo.
Era la prima volta che partecipavo, andata lì per promuovere il nostro Archeostorie Journal of Public Archaeology che ha da poco pubblicato il suo primo numero. Beh, per questo sono più che soddisfatta: il Journal ha suscitato tantissimo interesse sia alla presentazione pubblica che nei dibattiti e i molti incontri privati. Insomma missione compiuta: sono convinta, ora più che mai, che Archeostorie è sulla strada giusta!
È stata invece la manifestazione in sé a non convincermi. Ok, a questi incontri conta sempre più quel che accade nei corridoi e al bar davanti a una birra, che nelle aule. E Maastricht non ha fatto eccezione. Ma di cosa si parlava principalmente? Questo è il punto.
What archaeologists want
Si parlava e si discuteva di ricerca come a un qualsiasi altro incontro specialistico di archeologi. E vista la preponderanza di ‘preistorici’ e medievisti, questi ultimi saltati sul carro qualche anno fa, si parlava prevalentemente di preistoria e medioevo. Qualche sporadico amico classicista era pesce fuor d’acqua: “i classicisti hanno i loro incontri – mi dicono – loro non vengono qui”. E anche tutti gli altri erano poco rappresentati.
Mentre io credevo che qui fosse diverso. Che se gli archeologi di tutta Europa sentono il bisogno di ‘fare cartello’, di costruirsi una casa comune, questo sia innanzitutto per ragionare sui metodi della ricerca più che sui risultati, e confrontarsi tra specialisti di rami diversi.
Ma soprattutto, credevo che l’unione di tutti, nessuno escluso, servisse a promuovere la professione in Europa, e cioè a ragionare assieme sul ruolo dell’archeologo nel mondo contemporaneo, su cosa l’archeologia può fare per il mondo, e come può affrontare la sfide d’oggi dalla crisi economica alle spinte centripete alle migrazioni al risorgere di ideologie totalitarie. E sopra sopra sopra tutto, che servisse a creare un’unione forte tra archeologi capace di incidere concretamente nelle politiche culturali a livello europeo.
Le premesse del 23esimo incontro della Associazione europea degli archeologi (EAA)
Dopotutto, le premesse confortavano questa mia idea al cento per cento. L’incontro è avvenuto proprio a Maastricht nel venticinquesimo anniversario di quel Trattato dell’Unione europea che per primo ha incluso la cultura all’interno delle politiche comunitarie, nonché della Convenzione della Valletta del Consiglio d’Europa che ha stabilito linee chiare sulla gestione dei beni archeologici nel continente.
Inoltre i temi generali dell’incontro puntavano tutti in tal senso: il contributo dell’archeologia alla costruzione di una società più democratica e inclusiva; il valore della Convenzione della Valletta in una società europea profondamente mutata rispetto al secolo scorso; come strutturare il rapporto tra archeologi e cittadini; la ‘terza rivoluzione scientifica’ in archeologia, e cioè come le nuove metodologie scientifiche stanno rivoluzionando teoria e pratica dell’archeologia; come comparare l’archeologia di regioni e periodi storici diversi. Infine c’era il motto, Building Bridges, costruire ponti: più esplicito di così!
Una realtà diversa dalle belle parole
Bastava però andare oltre le pagine iniziali del programma per capire che queste erano belle parole più che intenzioni concrete e pervasive. Confesso: l’ho fatto solo una volta giunta a Maastricht, non prima. E ho notato solo allora l’enorme sproporzione nelle singole sessioni tra i temi che potremmo chiamare ‘politici e sociali’ e quelli di ‘scienza dura e pura’. Un rapporto 1:4 è persino generoso. Leggete e stupite se non mi credete. Insomma a parte qualche eccezione, quello di Maastricht è stato un incontro tra archeologi come qualsiasi altro, o quasi. Anche perché di rapporto con i cittadini e di ruolo sociale dell’archeologia si parla oramai, nel bene o nel male, a ogni archeologica occasione.
Serve fare lobby, sempre di più
Eppure i messaggi che giungevano anche dai Keynote Speakers erano più che chiari. In particolare Sneska Quaedvlieg-Mihailovic, segretario generale di Europa Nostra, ha fatto capire come i grandi passi avanti fatti in Europa sulle politiche culturali sono stati il risultato di pressioni ingenti. Senza una seria attività di lobby non ci sarebbero stati né la menzione della cultura nei trattati di Maastricht e ancor più di Lisbona (prima di allora considerata appannaggio dei governi nazionali), né la creazione dell’European Heritage Alliance 3.3, né tantomeno la dichiarazione del 2018 come Anno europeo del patrimonio culturale.
“Accusano Europa Nostra di fare lobby – ha detto – e invece io dico che ne facciamo ancora troppo poca. Solo l’unione fattiva di tutte le organizzazioni culturali europee potrà far capire il ruolo fondamentale della cultura nella costruzione dell’Europa unita. Saprà spiegare che la cultura mette in luce le differenze tra tradizioni diverse ma anche le somiglianze, e sa dunque veramente colmare lo iato tra le singole identità. Mai come oggi, l’Europa è in pericolo, e la cultura è forza strategica e coesiva per l’Europa”.
Mi piace pensare che le parole di Sneska abbiano influenzato in qualche modo le decisioni prese a Maastricht dall’Assemblea dell’Associazione. Si è deciso, tra l’altro, di creare una Commissione permanente per la comunicazione e una per curare da vicino i rapporti con Bruxelles. Immediato sorge il dubbio: siete un’istituzione europea, e ci pensate solo adesso dopo 23 anni? Ma forse prima avevano organi diversi, e comunque meglio tardi che mai. Vedremo cosa sapranno fare.
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