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Quel senso di incertezza - Archeostorie Magazine

Quel senso di incertezza

24 Ottobre 2023
Viviamo in un mondo dominato dall’incertezza del domani. Che ci divora e ci rende insensibili all'altro. Logora la nostra umanità

Viviamo nell’incertezza, senza sapere cosa ci riserverà il domani. Fragili, incapaci di contare sulle nostre forze per affrontare guerre, epidemie, migrazioni. Ostaggi della nostra stessa fragilità. La società d’oggi è così. Io stessa, però, sono così. Fragile nel corpo e nell’animo come la nostra società.

L’ho capito chiaramente giorni fa mentre raccontavo a un amico la mia ennesima ricaduta col mal di schiena. “Eh non possiamo contare sul nostro corpo, ci può abbandonare da un momento all’altro”, commenta lui. “La cosa brutta è proprio questa: vivere nell’incertezza”. Lui lo diceva per un altro motivo, credo più grave del mio: il distacco della retina in entrambi gli occhi. Problema risolto che lo costringe a vivere, però, nel costante timore che il minimo turbamento lo precipiti di nuovo nell’abisso.

Fare programmi?

È lo stesso per me. Organizzo lezioni, conferenze, progetti, viaggi, camminate, ma non sono mai certa di poterli realizzare davvero. Alcune volte va bene, altre no: la mia schiena protesta e non mi consente di partire, andare, affaticarmi. Combatto col dolore alla schiena ogni singolo giorno con perenni alti e bassi, giornate sì e giornate no in cui i dolori si fanno più acuti. È vero, vivo nell’incertezza perenne. Un’incertezza che mi divora. Mi è chiaro solo ora grazie alle parole del mio amico.

Tutto è cominciato nel dicembre 2009. Prima di allora, avevo dolori di schiena come un po’ tutti, con le mie belle protrusioni che protestavano, ma non più di tanto. Quell’incidente con lo scooter, in una Roma piovosa come non mai, ha cambiato tutto. Nessuna frattura ma tante e tali tensioni e incastri tra vertebre e muscoli, da lasciarmi paralizzata. Ho impiegato due anni a rimettermi in moto e, nonostante tutto, ero sempre allegra, convinta che ce l’avrei fatta. Sono forte, perché dubitare? Un secondo incidente, però – questa volta in auto per colpa di un pirata della strada – mi ha fatta ricadere nel baratro. Ha spezzato quell’equilibrio che stavo riconquistando con tanta fatica. E la seconda volta è peggio della prima. Non hai le stesse sicurezze né le stesse ingenuità. Sai esattamente come stai e cosa sei. Sai quanto è dura. E soprattutto, sai che tutto è imponderabile.

Ci sono voluti altri anni per riuscire piano piano a muovermi di nuovo, e fare una vita quasi normale. Alla fine scriverai un libro! mi dicevano tutti. Non ho mai voluto scriverlo. Ho sempre e solo voluto mettere da parte tutte le sofferenze, tutto il mio calvario. Evitare di ripensarci, di ripetere a parole le analisi, gli studi, gli esercizi e i pensieri che mi hanno fatta uscire dall’incubo, lasciandomi però sfinita. Non avevo la forza necessaria a ricordare. Per recuperare, dovevo dimenticare.

L’incertezza ti divora

E solo adesso capisco davvero che il peggio non è stato allora, ma è ora. I dolori e le fatiche, per quanto immani, passano. L’incertezza del domani resta per tutta la vita. Non mi pesa neppure, e non mi è mai pesato, non poter fare tutto quel che facevo prima. Arrampicare, correre, andare in bicicletta e in moto, fare viaggi lunghi e impegnativi, camminare col mio compagno zaino. Ora però faccio altro. È limitante, certo, e umiliante non essere del tutto autonomi e avere sempre bisogno d’aiuto. Però si trova il modo di convivere e persino di scoprire universi sconosciuti. Come il nuoto: ma quant’è bello nuotare? Ho cominciato a 50 anni e magari l’avessi fatto prima! Specie in mare dove ti senti più libero che mai, amico solo di tartarughe e pesci.

Capita però, a volte, di non poter neppure nuotare, neppure camminare, neppure muoversi autonomamente in casa. Mi capita spesso e non c’è perché. Non per fatiche o movimenti che non avrei dovuto fare: capita e basta. E ogni volta, servono tempo e pazienza per uscirne. Continuo imperterrita a fare programmi per il futuro, a impegnarmi in tutto quel che posso. Ma a volte mi chiedo: è incoscienza la mia? O semplicemente voglia di vivere e non dargliela vinta? Per quanto ancora avrò la forza di programmare, sapendo che non tutto, poi, si potrà fare? Soccomberò, prima o poi, alla mia fragilità?

Perché i naufragi nel Mediterraneo non fanno più notizia

Bisogna credere alle coincidenze. Non è stato un caso se, poco dopo il colloquio con il mio amico, ho letto su Internazionale il testo di un intervento di Annalisa Camilli a un festival del settembre scorso, Perché i naufragi nel Mediterraneo non fanno più notizia. Camilli partiva dalla strage di Cutro e da quella di Pylos di pochi mesi dopo che, forse perché in Grecia e non in Italia (siamo un paese di campanilisti), non ha neppure guadagnato le prime pagine dei nostri giornali. Perché è potuto accadere? si chiede Camilli, “quali meccanismi psicologici ci tengono distanti da quel dolore?”.

Camilli individua e analizza tre ragioni: il processo di disumanizzazione verso i migranti; il tempo eccezionale che stiamo vivendo tra crisi ambientali, guerre e pandemie; l’incapacità del nostro linguaggio di rappresentare con lucidità questo mondo nuovo che si sta formando.

Il primo gravissimo punto non richiede commenti ma solo un accorato appello ad abbandonare ragioni e interessi altri in nome della nostra comune umanità. Il secondo e terzo punto mi hanno fatto saltare sulla sedia. Sappiamo di vivere in tempi incerti che ci impediscono non solo di guardare lontano, ma persino di comprendere a pieno quel che siamo. E la pandemia ha rivelato le incertezze e fragilità di tutti noi, anche di chi vive lontano da guerre e miserie.

La crisi ci rende peggiori

Camilli aggiunge però che dai momenti di crisi non si esce migliori (come ci illudevamo anche noi nei momenti più cupi del Covid-19), ma peggiori. La sensazione di fragilità ci rende meno lucidi e più pronti ad assecondare i nostri istinti più biechi. Il nostro spazio emotivo è così congestionato da renderci apatici e quasi insofferenti verso il dolore degli altri. Da qui il trionfo recente di nazionalismi e populismi un po’ ovunque. Da qui l’indifferenza diffusa per chi soffre. Anzi peggio: l’interesse morboso per i fatti cruenti, quando questi accadono, ma quasi solo per bieco voyeurismo. Un minuto dopo, sono già dimenticati o addirittura negati. E non riguarda solo il dramma dei migranti, di cui parla Camilli, ma anche le guerre ci lasciano sovente indifferenti. Persino le stragi di Hamas e il dramma di Gaza, dopo che i media ci hanno mostrato con raccapricciante dovizia di particolari gli orrori peggiori, stanno presto passando in secondo piano.

Se la nostra storia personale è specchio della storia sociale, devo riconoscere che Camilli ha ragione. Quando mi assale il mal di schiena forte, cado in una sorta di regressione psicologica, oltre che fisica. Un pessimismo profondo. E sì, lo confesso, penso solo a guarire e a null’altro e a nessun altro. Sono egoista, forse. O forse penso che solo quell’egoismo, quel concentrarmi su me stessa, mi dia la forza di superare la crisi. Il che è giusto, ma fino a un certo punto. Forse si guarisce anche senza scordare gli altri che hanno bisogno di noi. È più faticoso, certo, e più complicato, ma non bisogna rinunciarvi. E forse se ognuno di noi, leggendo le osservazioni di Camilli, facesse un esame di coscienza dei propri stati d’animo, riuscirebbe a superarli. Sarebbe meno incline alla morbosità e alla successiva dimenticanza. Vivrebbe più in armonia con gli altri e per gli altri. E si comincerebbe così a costruire un mondo in cui le crisi possono anche renderci migliori.

Ci mancano le parole

Forse troveremmo anche, da subito, le parole giuste per raccontarci. Nel suo terzo punto, Camilli parla di impossibilità di analizzare il presente e afferma che questa realtà così complicata e complessa la possiamo solo descrivere e null’altro. Anzi, la dobbiamo descrivere dando voce ai testimoni diretti, per contrastare l’incredulità dilagante.

Mi ha fatto ricordare quel che noi giornalisti dicevamo allo scoppiare delle Primavere arabe. Non avevamo parole per cogliere il senso di quanto stava accadendo, e allora ci siamo convinti che solo l’arte poteva rendere quel che razionalmente era irraggiungibile. Però l’arte, si sa, è fatta di provocazioni. Pone domande e induce a riflettere, ma non dà risposte. E infatti col tempo l’impasse giornalistica è stata superata, e credo che la guerra in Ucraina non abbia colto i media impreparati. La crisi di Gaza sì, e gli errori di comunicazione e valutazione delle notizie, anche macroscopici, sono molti; però in quel caso si tratta probabilmente di impreparazione tecnica più che mentale.

Certo, anche la pandemia ci ha ridotti all’afasia, o a quel chiacchiericcio isterico che non ha contribuito a comprendere la situazione. E forse anche oggi ne stiamo sottovalutando la portata. Tendiamo a rimuoverla dalle menti, pur sapendo che è ancora tra noi. Non ne abbiamo colto a pieno il significato, la portata, la pericolosità. Non l’abbiamo metabolizzata, e così continuiamo a trovarci impreparati di fronte a quel che verrà poi. Non parlo della ricerca scientifica, ovviamente, ma del sentire di tutti noi.

Afasia come resistenza

Anche il mio sentire, certo. E per onestà, chiudo con me il cerchio di questo parallelo personale/sociale. La sua conclusione logica sarebbe che il mio dramma cronico con la schiena non è dovuto solo a problemi fisici oggettivi – tutte le mie ernie, spondilosi, scoliosi e via cantando – ma anche al fatto che non ho saputo capire a pieno il senso del mio male. Non ho scritto quel famoso libro, insomma. Come la società tutta per la pandemia, anch’io ho preferito rimuovere anziché metabolizzare. E continuo a pagarne le conseguenze.

Sarà vero, forse persino indiscutibilmente vero. Però non tornerò a riflettere su quel che ho voluto con tanto impegno rimuovere. Affronto e descrivo il presente, ma non racconterò mai il dolore passato. Ho una capacità innata di scordare le malattie di chiunque. Innanzitutto le mie. Rimuovo il problema in sé e tutte le sensazioni, i pensieri, i dolori. Non so perché lo faccio ma è così da sempre e non mi va di cambiare. Non per istinto di conservazione ma per una sorta di coerenza con me stessa e quel che sono. Perciò no, non chiedetemelo neppure. Quel libro non lo scriverò mai.

Autore

  • Cinzia Dal Maso

    ​Tre passioni: il mondo antico, la scrittura, i viaggi. La curiosità e l’attrazione per ciò che è diverso perché lontano nello spazio, nel tempo o nel pensiero. La voglia di condividere con tanti le belle scoperte quotidiane. Condividerle attraverso la scrittura. Un solo mestiere possibile: la giornalista che racconta il passato del mondo. Scrive su temi di archeologia, comunicazione dei beni culturali, uso contemporaneo del passato, turismo culturale per i quotidiani La Repubblica e Il Sole 24 ore, e per diverse riviste italiane e straniere. Dirige il Magazine e il Journal di Archeostorie.

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