La gente, le imperatrici bizantine non se le immagina così. Come Teodora di Bisanzio, intendo. Quando pensa a un’imperatrice, e per giunta bizantina, ha in mente l’idea di una altera principessa, aristocratica e distaccata dalla cose del mondo, con alle spalle una famiglia nobilissima, antenati ricchi e potenti, e infanzia passata tra i lussi della corte, le cerimonie sacre con cortei di chierici, incenso in volute per l’aria di chiese dai mosaici dorati.
Lei no, Dante in Paradiso non ce l’ha messa, perché sulla signora le voci che giravano erano tante, forse troppe. Lo storico bizantino Procopio, quando ne ha descritto la carriera, ha usato toni più adatti a descrivere l’incredibile ascesa di una pornostar di successo.Teodora nasce in una famiglia di circensi, ma all’epoca, a Bisanzio, il circo non era proprio una cosa simile a Moira Orfei. Era più un insieme di gladiatori sudati che affrontavano fiere e combattimenti, ultras esagitati bene ammanicati con la politica e, dopo gli spettacoli, pantomime di attricette poco vestite, pronte a togliersi in un lampo i pochi stracci che avevano indosso davanti al pubblico urlante.Il padre, che sorvegliava gli animali per gli spettacoli, muore presto, e la piccola Teodora, tanto per cominciare, si trova immediatamente invischiata in una bella famiglia di fatto, con mamma unita a un altro e figlie lasciate a vagolare in mezzo alle gabbie, quando andava bene, e ai gladiatori.
Cosa successe con Ecebolo non è chiaro, forse una lite, forse un tradimento, forse, semplicemente, i due non erano fatti per stare assieme. Fatto sta che la ragazza si ritrova sola ai confini del mondo. Un’altra si sarebbe disperata, ma Teodora è Teodora. Così fa i bagagli e si mette in viaggio per raggiungere l’unica città dell’impero che può stare al pari con Costantinopoli, Alessandria d’Egitto.Uno si aspetta che, con tali precedenti, arrivata in una nuova metropoli, Teodora riprenda la vecchia vita mettendosi a frequentare teatri e bel mondo, cercando qualche amante ricco o ancora meglio una schiera, per farsi mantenere.
Invece no, ad Alessandria Teodora frequenta il patriarca, Timoteo, di cui diventa sì la protetta, ma pare non nel senso a cui ci aveva abituato in precedenza. Indossa abiti modesti, si mette persino a studiare quattro acche di teologia, con Timoteo che l’istruisce di persona nei sacri misteri, e soprattutto nei mille cavilli dell’eresia monofisita di cui lui è adepto. Con Timoteo, in pratica, si rifà una verginità sociale, dato che l’altra, ahimè, è impossibile recuperarla. Così quando qualche mese dopo torna a Costantinopoli, indossa vestiti decisamente meno succinti e l’aura della convertita di lusso, perché la ragazza può essersi pentita dell’antico mestiere, ma le è rimasto il fiuto e sa sempre trovarsi amici potenti.
Infatti, non si capisce bene come, nel tempo di un amen Teodora intreccia una storia con Giustiniano, che è nipote dell’imperatore Giustino e soprattutto comes domesticorum, cioè il ministro più potente dell’impero.
A Costantinopoli sulla coppia nessuno all’inizio scommette un nummo bucato. Non tanto perché Teodora è quello che è, ma perché Giustiniano non è certo un ragazzino inesperto del mondo e della vita. In città si vocifera che abbia una passione smodata per le etere di lusso che frequenta spesso e volentieri, ma è sempre stato furbissimo nel non farsi incastrare da nessuna. Non ha mai avuto un’amante ufficiale o una mantenuta fissa, e tutta la sua vita gira attorno al suo lavoro e alla sua carriera, che costruisce con maniacale attenzione.
È stato lui il deus ex machina dell’elezione dello zio, che ha portato sul trono con un complotto così ben organizzato da riuscire a spiazzare tutti gli avversari, poi eliminati in fretta e con fredda spietatezza. È un fine giurista, un politico sgamato e un raffinato intellettuale.
Tuttavia, da bravo intellettuale, non sa resistere al fascino di una escort con un carattere forte e determinato quanto il suo. Teodora ha tutto quello che a lui manca: viene dal nulla, mentre lui è vissuto fin da ragazzo dentro la corte; ha il polso della gente e si muove per i vicoli di Costantinopoli come a casa sua. Soprattutto è nata in città, mentre lui, così razionale e distaccato, è un provinciale nato fra i monti della Dardania e, di fronte alla folla e al ventre molle della città, si sente sempre disarmato e impaurito, incapace di governare e di comprendere gli scatti d’ira e le rivolte che scoppiano subitanee, e rischiano ogni volta di sovvertire carriere e impero senza un vero perché.
Di fronte a Teodora, Giustiniano si ritrova inerme come di fronte a Costantinopoli. Perde la testa.
Prima la prende come amante ufficiale ovvero concubina more uxorio, legandosi a lei in maniera esclusiva. La fa nominare ‘patrizia’ perché possa partecipare alla vita di corte come le altre donne della famiglia imperiale, alla pari. Poi morta Eufemia, la zia imperatrice e bigotta che non la poteva vedere, costringe lo zio – che nel frattempo lo aveva nominato coimperatore – a cambiare la legge che impediva ai patrizi di unirsi in matrimonio con ex attrici. E la sposa, innalzandola al trono.
Senatori e generali ebbero travasi di bile, costretti a mandar giù il rospo di dover chiamare ‘imperatrice’ una che fino al giorno prima avrebbero nominato con ben altri titoli. Ma Teodora per Giustiniano è una fortuna. Lui è impegnato a trar della legge il troppo e’l vano, come dice Dante. Lei, che per le pubbliche relazioni ha un genio innato, gli garantisce l’appoggio del popolo con i suoi agganci al Circo fra le tifoserie degli Azzurri, gli ultras dell’epoca.
Ma la folla a Costantinopoli è una belva furba e sfuggente: si può cercare di tenerla sotto controllo, ma non la si doma mai. Quando nel 532 d.C. il prefetto Eudemo prova a riportare un po’ di ordine e arrestare alcuni facinorosi sospettati di omicidio, gli Azzurri e i Verdi, le due fazioni sempre nemiche, si coalizzano contro l’avversario. E l’avversario è Giustiniano.
Scoppia il finimondo. Giustiniano, con il suo solito approccio razionale, va allo Stadio dove i rivoltosi sono riuniti, convinto che basti la sua autorità imperiale a sedare il tumulto. Ma la sua oratoria forbita, il suo piglio da giurista non hanno presa su un popolo pieno di rancore. Quando cerca di parlare lo zittiscono urlandogli “Asino!” e “Buttiamolo giù dal palco!” Sconvolto, rientra a palazzo e convoca un consiglio straordinario mentre la rivolta dilaga.
Non controlla più niente, e niente controllano i suoi ministri e i suoi generali. Dentro alla sala del Concistoro l’idea è che tutto sia perduto, e abbandonare la città sia l’unica strada per avere almeno salva la vita.
Ed è allora che entra in scena lei, Teodora, vestita con una tunica bordata di porpora, come si conviene a un’imperatrice. Guarda i ministri, guarda il marito come una dea guarderebbe una schiera di omuncoli che si affannano senza costrutto, e pronuncia una battuta destinata a durare nei secoli: “Andate voi, se volete, io resto. La porpora imperiale per me è un sudario perfetto.”
Gli omuncoli intorno zittiscono, e forse arrossiscono per la vergogna. Loro gestiscono il potere, ma lei e lei sola in quel momento è Roma. Ne incarna tutte le virtù e tutta la storia. Nessuno ha il coraggio di opporsi al suo volere, nessuno osa più proporre la fuga.
Restano. Teodora fa chiamare Belisario, il generale più famoso del momento e marito di una sua cara amica, nata come lei nel ventre del Circo. Gli ordina di sedare la rivolta con qualsiasi mezzo e lui, da militare, esegue con efficienza spietata: è una mattanza immane che lascia gli spalti del Circo grondanti di sangue. Ma il trono è salvo: quel trono che lei si è conquistata così faticosamente, ingoiando umiliazioni, resta suo fino alla morte.
Che giunge presto, più presto di quanto si potesse immaginare. A meno di cinquant’anni il cancro al seno la coglie, e la fa morire fra atroci sofferenze. Lascia solo Giustianiano, che non osa risposarsi anche se le sopravvive a lungo, perché non c’è in tutto l’impero una donna che possa prendere il suo posto, nel suo cuore e forse anche nel suo letto.
Dissero i contemporanei che l’avesse stregato con filtri d’amore e legato a sé con chissà quali pratiche erotiche, ma più probabilmente a conquistarlo bastò quel suo riuscire a essergli pari e qualche volta persino a sovrastarlo; la sua capacità di essere imperatrice e indossare la porpora davvero come una seconda pelle, tanto da non concepire di poterla abbandonare mai, anche a costo della vita.
Si tolse, prima di morire, anche la soddisfazione di farsi ritrarre, lei, unica donna e pure di costumi chiacchierati, in una chiesa, a fianco e sullo stesso piano del marito. Se andate a Ravenna, nella chiesa di San Vitale, alzate gli occhi e la vedrete lì, maestosamente ieratica. E nonostante la staticità di quel mosaico bizantino, se guardate bene, potete leggerle negli occhi un brillio di divertito sfottò, una sguardo che ricorda tanto certe occhiate oblique di Moana Pozzi quando l’intervistatore di turno le chiedeva se fosse vero che sul comò teneva Sant’Agostino, e ironizzava sul fatto che volesse darsi alla politica.
Perché, cari lettori, è meglio non scandalizzarsi quando si pensa che uno Stato stia andando a puttane.
Qualche volta, Teodora insegna, può essere la sua fortuna.
Articolo meraviglioso!!!! Un modo di raccontare la storia avvincente, prenderò spunto.