100 colpi di branding prima di rilanciare Pompei

11 Giugno 2016
Il branding e i beni culturali: panacea per istituzioni al capolinea o solo fumo negli occhi? A sei mesi dal rebranding del sito archeologico di Pompei che dovrebbe rilanciare il bene patrimonio dell’UNESCO sulla scena internazionale, è ancora difficile predirne l’esito. L’unica certezza è che per cambiare davvero non basta rifarsi il look
Se c’è una parola che insieme a ‘marketing’ riesce ad accendere gli animi di tutti i professionisti dei beni culturali, questa è certamente ‘branding’. C’è chi lo esalta come strumento ormai necessario di leadership manageriale, e chi lo critica come l’ennesimo ‘colpo di belletto’ dietro cui nascondere i veri problemi della gestione del patrimonio.  L’unica certezza è che oggi, a sei mesi dal rebranding di uno dei più iconici siti archeologici del mondo – Pompei – ancora non è chiaro quale delle due fazioni abbia davvero ragione.

Cos’è il brand e cosa intendiamo con branding

Ma facciamo un passo indietro: che cos’è il brand?
Innanzitutto sfatiamo un mito: il brand non è il logo. Secondo David Aaker – uno dei massimi esperti di brand strategy al mondo – il brand è una combinazione tra il prodotto di un’organizzazione e la percezione che le persone – nel caso di un museo, tutti i suoi stakeholder – hanno di essa. Questa percezione si forma attraverso le attività legate alla missione dell’organizzazione: dalla qualità del prodotto fino alla sua promozione e al customer service. Ogni volta che una società entra in ‘contatto’ con il mondo esterno, l’esperienza che ne deriva contribuisce a creare e instillare nei consumatori quei sentimenti e sensazioni che emergeranno poi, istintivamente, quando ripenseranno al prodotto o all’organizzazione stessa.
Nel caso di un museo, i ‘punti di contatto’ che contribuiscono alla formazione e al riconoscimento del brand, sono sia la disposizione della collezione e la sua interpretazione, sia la qualità dei servizi al pubblico, la semplicità d’uso del sito web e addirittura il tipo di eventi che sceglie di ospitare.

Un pretesto per rilanciare il sito

Quando lo scorso dicembre la Soprintendenza Pompei ha lanciato il nuovo brand di Pompei, parte del piano della comunicazione del Grande Progetto Pompei, l’obiettivo era chiaro: sfidare la classica immagine di Pompei come luogo di morte per rilanciare il sito patrimonio dell’Unesco a livello internazionale.
Come spiega ad Archeostorie Adele Lagi, responsabile dell’Ufficio Unesco Sito 829 ‘Aree archeologiche di Pompei, Ercolano e Torre Annunziata’, “la nuova Pompei vuole essere il fotogramma di un’istante di vita”. Con un claim (o slogan) d’impatto – Pompeii. Tempus, Vita – un logo semplice che riprende le decorazioni parietali di Villa dei Misteri, e una strategia interpretativa che conta molto sulle nuove tecnologie digitali, Pompei sembra pronta a lasciarsi alle spalle quell’immagine negativa che, nel 2010 quando crollò l’edificio della Schola Armaturarum, l’aveva resa motivo di imbarazzo per il Ministero italiano e per l’Europa tutta. Ma è proprio così?

Molto più di un semplice cambio di look

In realtà il branding implica molto più di questo. Quando si fa il rebranding di un museo o di un sito archeologico, si realizza indubbiamente un ‘cambio di look’, ma questo deve partire dal cuore del museo, dalla sua missione e dai suoi valori.
Se si sente la necessità di rivoluzionare un’organizzazione, vuol dire che la situazione è estremante critica, al punto da pensare che l’unica soluzione possibile sia cancellare tutto e ricominciare da capo. Si dice che quando noi donne siamo in crisi, quando siamo davvero disperate e sentiamo il bisogno di un cambiamento radicale, ricorriamo a un drastico taglio di capelli. Generalmente è vero per tutte, ma quando ci guardiamo allo specchio, reagiamo in due modi totalmente diversi: ci sono quelle che odiano il nuovo taglio e si disperano, e quelle che lo amano alla follia e si lanciano in una nuova fase della vita. Ciò che sta alla base di queste due reazioni opposte è la voglia genuina di accogliere il cambiamento. Solo se si è davvero pronte a mettere in discussione tutto ciò che per anni è stato alla base del nostro essere, allora si è davvero capaci di cambiare.
Così è anche per i musei e i siti archeologici: un processo di rebranding avrà un impatto positivo solo se l’istituzione è davvero pronta a ribaltare tutto, affrontare i propri difetti, i propri errori e ricominciare partendo da un’analisi accurata dei propri punti forti con creatività. Ed ecco qui la ragione di un certo scetticismo iniziale verso il rebranding di Pompei. Quando nel 2010 è stato fatto un primo tentativo di rebranding con PompeiViva, progetto sponsorizzato dal Mibact con l’obiettivo – già allora – di stravolgere l’immagine funerea e passiva di Pompei, evidentemente i tempi non erano ancora maturi.

Oggi però la situazione politica ed economica è diversa, e certamente la Soprintendenza ha dato segnali forti di una precisa volontà di cambiamento. Basti pensare alle frequenti riaperture al pubblico di domus fresche di restauro, e la riapertura di Villa dei Misteri e della Palestra grande; alle numerose iniziative che hanno rianimato la città romana come il TEDx Pompei o la mostra di Igor Mitoraj con cui Pompei accoglie per la prima volta l’arte contemporanea, o ancora la mostra Per Grazia Ricevuta che segna un’importante e finora inedita apertura dell’area archeologica verso la città contemporanea e l’altro grande polo cittadino, il Santuario della Beata Vergine del Rosario. La stessa gestione attenta delle opere comprese nel Grande Progetto Pompei segna un cambio di passo, nonché l’intensa attività di PR a livello nazionale e internazionale che l’accompagna e un primo tentativo di rendere i suoi dati liberamente disponibili per i cittadini nel Portale della trasparenza. Per rubare un’ espressione che spesso il ministro Dario Franceschini ha usato in riferimento a Pompei, “il vento sta cambiando”. Ma sarà sufficiente per dare il via a tutti quei processi rivoluzionari di cui il sito ha bisogno da tempo, soprattutto a livello gestionale?

​Sebbene sia stato più volte annunciato, per adesso a Pompei continua a mancare un piano di manutenzione programmata per tenere sotto controllo lo stato di conservazione delle strutture antiche; manca una risposta definitiva alla cronica mancanza di personale; manca uno studio approfondito della posizione del sito archeologico sul mercato del turismo locale, nazionale e internazionale; mancano informazioni precise sui visitatori e le loro esigenze; mancano un piano di promozione e uno di sviluppo che permettano all’amministrazione di attirare anche finanziamenti privati; manca una gestione dinamica che possa dialogare in modo fattivo e snello con le altre realtà, in particolare private.
Il piano della comunicazione, come informa Adele Lagi, prevede anche il lancio di un nuovo sito web ricco di informazioni e percorsi per i visitatori, e costantemente aggiornato su ciò che  è aperto giornalmente al pubblico. Se il nuovo portale è al momento in costruzione e quindi non è ancora possibile valutarne l’impatto, i canali social sono però già stati inaugurati: con poco più di novemila ‘like’ su Facebook (il Museo Egizio di Torino ne ha 120.000), meno di mille followers su Twitter (Massacciucoli Romana ne ha 2.300) e contenuti quasi esclusivamente in italiano, è difficile dire che la nuova strategia digitale di Pompei sia un successo*.

Ma soprattutto, a Pompei pare mancare ancora una missione forte: la città pare ancora priva di valori di riferimento e di una visione chiara per il futuro del suo ruolo in Italia e nel mondo. Senza quest’anima, questo cuore, questa strategia di branding, la città romana per antonomasia non avrà mai davvero il pieno controllo dei propri ‘punti di contatto’ e quindi della propria immagine.
E se la scritta “Pompeii” con la “o” in arancione, ispirata alle decorazioni parietali della città romana, rimane isolata, rischia di essere davvero solo un colpo di belletto.
​*ERRATA CORRIGE: ci è stato fatto notare che Pompei è presente su Facebook con due profili: Pompeii -Soprintendenza (in italiano) e Pompeii Sites (in inglese). Gli account Twitter e Instagram sono sia in italiano che in inglese e tutti gli account sono stati lanciati in a metà aprile. Sebbene in effetti queste informazioni contribuiscano a creare un quadro un po’ più positivo, la comunicazione social rimane comunque piatta, senza anima. Questa rettifica non influisce quindi sulla conclusione raggiunta dall’autrice.

Autore

  • Anna Paterlini

    Da sempre grande appassionata di conversazioni casuali con sconosciuti, è determinata a dimostrare che gli archeologi sanno parlare con la gente normale. Ignorando attivamente il detto: “Non metter bocca, dove non ti tocca”, passa il suo tempo curiosando nei cervelli e nella psiche dei turisti che (non) affollano i nostri siti archeologici e musei. Il suo obiettivo è rispondere a una domanda precisa: se l’archeologia è un patrimonio di tutti, perché nessuno si sente suo orgoglioso proprietario?

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