È stato un piacere e un onore essere chiamata a coordinare il panel Archeostorie di tutti noi che apre a Ravenna la terza giornata di lavori del Primo Convegno nazionale dell’Associazione italiana di Public History. E sono convinta che non sia un contributo né scontato né ‘modaiolo’, perché è il frutto di esperienze vere, coronate da un successo che ora fa guardare avanti con speranza ma che sono costate fatica, dura sperimentazione, coraggio. Solo grazie a questo possono essere considerate storie esemplari.
Il mio compito è quello di introdurre i diversi contributi ma ho voluto anche raccogliere alcuni spunti di riflessione che legano il nostro comune sentire. Sono solo alcuni fra i possibili, e mi è parso utile farne una sorta di indice, da organizzare come un percorso a tappe.
L’antichità ha perso corpo
Per cominciare vorrei partire da una considerazione che per me, storica del mondo greco, dovrebbe essere piuttosto una sconfitta, una vera Caporetto, anzi. Grazie al cielo, però, è una sconfitta solo apparente perché – e i nostri relatori ce lo mostreranno – si tratta un punto di risalita verso il successo.
Comincerò come in tutte le storie che si rispettino: c’era una volta un tempo ormai lontano in cui nelle università europee si praticava uno strano culto dell’antichità greca e latina, talmente disconnesso dalla realtà che gli studiosi non s’interessavano affatto di come gli antichi “mangiassero, vestissero panni e si comportassero nelle varie circostanze della vita”. Degli antichi Greci e Romani si potevano conoscere le più minute sfumature di pensiero ma allo stesso tempo ascoltare senza battere ciglio che ‘gli Ateniesi, nei loro famosi simposii mangiavano insalate di patate e pomodoro e bevevano caffé zuccherato”. Questa sorridente immagine tratta dal famoso storico Arnaldo Momigliano (Sui fondamenti della storia antica, 1984, p. 427) racconta di un modo zelante di avvicinarsi al mondo ‘classico’, sentito come modello assoluto e ideale. Un modo che non esiste più, forse, ma che non ha fatto bene alla conoscenza dell’antico.
Rispetto a quel tempo, davvero lontano, che aveva sacralizzato i ‘classici’ come riferimento indiscutibile, oggi siamo forse al polo opposto. La perdita di contatto con il mondo antico, che nel corso degli ultimi decenni ha lasciato sul campo il suo ruolo di modello culturale d’élite, ha determinato una trasformazione nel modo in cui si conosce l’antichità. E infatti la storia antica è sempre più spesso percepita come una sorta di indistinto calderone in cui avvenimenti realmente accaduti e mito si confondono, senza distinzione sostanziale.
Poi però c’è l’archeologia. Che ha un vantaggio rispetto a una storiografia paludata e incorporea che cancella la sostanza di Greci, Romani, Longobardi o di qualsiasi altro popolo dell’antichità: ci restituisce oggetti, manufatti, una realtà materica che si deve avere sotto gli occhi e tenere fra le mani. Questa dimensione di concretezza riscatta immediatamente l’antico alla vita e suscita stupore e meraviglia, specie se il valore artistico dell’oggetto è evidente, o se è di grande antichità o unicità. Li abbiamo perfino venerati, per questo, i ‘resti del passato’: chiusi nelle teche e in sacrari creati apposta per contenerli, inventandoci degli speciali sacerdoti addetti al loro culto.
Ma, a parte queste che potremmo definire malattie di percorso, l’archeologia ci ha anche insegnato una via speciale d’accesso al passato: la cultura materiale, quella dimensione concreta e quotidiana nella quale un’umanità reale ha realizzato o usato quell’oggetto, quella casa, quel monumento. Ha vissuto: lontani nel tempo, ci sono stati uomini, donne, bambini diversi da noi ma certo – in qualche modo possibile – vicini a noi.
Il nostro vantaggio – di noi, intendo, che abbiamo una conoscenza maggiore e specifica di quel tessuto di relazioni, istituzioni, vicende che è nel passato – è il vantaggio di chi ha il compito importante di trovare quel ‘modo possibile’ per avvicinare l’antico, di far fiorire la spontanea curiosità e farla diventare una via di conoscenza, di arricchimento, di crescita.
Perché, a parte il primo interesse, che si brucia nello spazio di un momento, le pietre sono mute, e gli oggetti antichi raccontano le loro storie solo se gli archeologi e gli studiosi del passato sono in grado di spogliarsi dei loro paramenti di sacerdoti di un sapere arcano e aristocratico, e far capire che ha un senso indagare nelle testimonianze del passato.
È, se volete, un ritornare sui passi del nostro antico maestro, di quell’Erodoto di Alicarnasso – padre della storia se non altro perché le ha dato un nome – che al momento stesso in cui presenta il suo lavoro e il senso che ha avuto lo definisce “la spiegazione delle ricerche (apodexis tes histories)” fatta “perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose” non restino senza ricordo.
Saperi del passato, saperi dal passato
L’antico e i suoi significati – e siamo al secondo punto – si devono saper comunicare. Di più, raccontare, a interlocutori diversi. Il nostro compito infatti è dare ragione, orientamento, forza, consistenza a ciò che sappiamo perché diventi una consegna: saperi che vengono dal passato.
Saperi e non sapere, perché in realtà questo passato possiamo declinarlo davvero in modi diversi. C’è, in primo luogo, la consapevolezza della diversità. L’antichità è una grande palestra di differenze in cui modi di vivere e valori anche molto lontani dai nostri, addirittura opposti, si misurano e convivono con le prime manifestazioni di idee e sistemi che ancora ci appartengono. La “diversità” del passato e la sua varietà sono un importantissimo campo di conoscenza e uno sterminato terreno messo a frutto in cui cogliere storie da raccontare.
Ma sono anche, a un successivo livello di apprendimento, addirittura di educazione, il modo di fare esperienza di una “alterità” da conoscere e con cui stabilire un contatto. È una diversità che non ci respinge perché non ci minaccia e, anche se guardiamo con occhi diversi a tante cose, con essa possiamo essere più aperti e pronti a conoscere, accogliere e rispettare di quanto non lo siamo con le diversità che ci circondano nel nostro presente. E non si tratta soltanto dell’’altro’: attraverso il passato è possibile proporre una riflessione sull’oggi, addirittura una migliore comprensione del presente, un percorso di auto-svelamento e di appropriazione critica che ha un forte valore formativo.
La rappresentazione del passato, infine, in quanto memoria culturale e non solo ricostruzione di eventi, ci costruisce in quanto soggetti collettivi. Ha la fondamentale funzione di ‘contenitore’ dell’identità culturale, più che dei singoli, delle comunità moderne che a quel passato fanno riferimento, soprattutto le comunità locali in rapporto al ‘loro’ passato, rappresentato dalla ‘loro’ archeologia.
Con tutti questi diversi contenuti, si può, si deve saper fare un percorso dal tempo remoto all’oggi come un cammino in cui si riflette insieme, si condividono i ragionamenti e ci si lascia, avendo imparato qualcosa di più. E qui, se ‘si può’ dice dell’opportunità, della ricchezza che ci viene offerta, e ‘si deve’ parla dell’ingaggio etico che questo impegno comporta, ‘saper fare’ ci ricorda che questo è un vero e proprio lavoro specifico, un mestiere, con una sua arte e con i suoi strumenti: narrare.
Raccontare storie
Il racconto, che è nel codice culturale dell’intera umanità, è, da sempre, il filo rosso che tiene insieme il tipo di sapere di cui ho appena parlato. Da sempre, raccontiamo storie. Abbiamo raffinato i modi, abbiamo fatto ingresso in una vertigine di forme, strutture, tecnologie che ci aiutano a farlo ma ancora, in primo luogo, narriamo. E questo terzo punto è quello che ci mette insieme oggi, a condividere una serie di esperienze costruite intorno al raccontare la storia.
Oggi è in voga il termine anglosassone storytelling e, come tutte le cose abusate, rischia di banalizzarsi in forma e contenuto. Qui non voglio correre questo rischio passando sopra riflessioni e competenze precise. Faccio un piccolo salto in avanti e atterro su quella che per tutti noi, qui, è una certezza, direi un minimo comune denominatore: la narrazione è vitale nella comunicazione del passato e dell’archeologia. Indispensabile per tornare a far appassionare dell’antichità gli uomini, le donne, i giovani e gli anziani di oggi.
Con un’espressione molto bella, che prendo a prestito da Cinzia Dal Maso, se è vero che lo storytelling è “consegnare l’uomo all’uomo” (vedi l’articolo su Archeostorie), allora è questo il modo di restituire al mondo antico quella corporeità, quella carne e quel sangue che un sapere paludato e accademico gli ha sottratto, di attivare la sympatheia, quel ‘sentire vicino’ che è la chiave del conoscere a fondo.
La narrazione, con le mille forme che oggi può prendere, è lo strumento privilegiato di una riconquista. La riconquista di una dimensione accessibile, accogliente, viva del passato. Una dimensione anche dialettica, perché le storie possono essere costruite assieme al pubblico e diventare narrazioni a più voci. Una dimensione, perfino, se vogliamo, meta-storica: possiamo far rivivere il passato nel mondo d’oggi, viaggiare nel tempo, ricreare un impossibile contatto diretto con interlocutori di centinaia o migliaia di anni fa.
Lo storytelling e il coraggio dell’interpretazione
Si tratta di un confronto sicuramente immaginario, virtuale, forse anche a-storico se si pensa al passato ‘in sé’ ma che invece è molto importante per la sua comunicabilità, per il rapporto che noi, il presente, possiamo avere con esso.
Siamo allora a un’altra tappa del nostro percorso, la quarta: lo storytelling non è solo dare struttura narrativa al passato ma diventa anche un modo di coglierlo, indagarlo, di approfondirne alcuni aspetti. Un modo che è diverso, certo, dall’asettico ‘ricercare’, da quello studio a volte un po’ autoreferenziale, se volete, che è possibile che ciascuno di noi pratichi nel segreto del suo cantuccio accademico. E lo è, innanzi tutto, perché si addossa il coraggio di indicare delle strade, di selezionare, di interpretare i silenzi e le lacune, di dare, insomma, una visione che è sì, parziale ma ‘onestamente’, esplicitamente parziale: un nuovo modo di appropriarsi dell’antichità.
Entriamo in un campo d’indagine di frontiera dove, come in ogni frontiera, tutto è possibile ‘so to speak’. All’origine dello storytelling in campo archeologico c’è anzitutto uno sguardo particolare lanciato sul passato, ci sono le domande che ci poniamo per comprenderlo meglio, ma anche quelle che ci servono a farlo meglio comprendere. Questo costringe, da un lato, a togliere ai documenti del passato quell’aura di sacralità che lo studio ‘duro e puro’ ha tessuto loro intorno, dall’altro fa fluire, come aria fresca in stanze che sanno di chiuso, le possibili richieste, le curiosità del pubblico di oggi. Contamina, e non è un male.
Il risultato è un ragionamento, una riflessione condivisa che è lo scopo vero dell’incontro col passato che si fa nei musei, nelle aree di scavo e nei parchi archeologici, nelle pubblicazioni, nei giochi didattici e in mille altri incontri possibili. Noi oggi ne racconteremo solo alcuni, ma molti altri sono percorribili e vengono sperimentati con sempre maggiore coraggio ed energia.
Storie per tutti: un’archeologia che diventi veramente patrimonio di tutti
Quest’ultimo punto ci porta al valore che noi, come gruppo che ha costruito questo panel, abbiamo voluto dare al nostro lavoro. Un impegno che – voglio sottolinearlo con forza – non può essere staccato da una finalità etica, civile: dare un significato nuovo alla ‘consegna del sapere’, un significato non più aristocratico ed elitario ma neppure un input velleitario e acritico di informazioni. Lo ripeto, sicura di non esagerare: un modo diverso di pensare la condivisione del sapere. Altrimenti perché staremmo qui, in un congresso di Public History?
Possiamo chiederci se siamo di fronte alla vampa di una stagione o a una trasformazione vera. Noi vogliamo credere che, ancora di più, siamo proprio di fronte a una rivoluzione, capace di scardinare una tradizionale visione che fa del rapporto col passato una chiave di sapere selettiva ed esclusiva. Pensiamo a una conoscenza del passato che si costruisce con le domande che vengono dal basso, non meno approfondita e consapevole ma più aperta e sentita.
È per questa ragione che il panel raccoglie alcuni esempi di attività di ‘archeologia pubblica’ che hanno trovato nello storytelling la chiave del successo, ma anche lo spazio per inventare professionalità nuove, indicando una strada concreta. Partiremo con l’esperienza del team ArcheostorieTM, la sua battaglia per diffondere in Italia una seria pratica dell’archeologia pubblica, intesa in senso inclusivo, come ci illustrerà più diffusamente la ‘pioniera’ Cinzia dal Maso, creatrice e mentore di questa impresa.
Galatea Vaglio e Francesco Ripanti ci mostreranno modi molto diversi di fare storytelling dell’antico: la prima mostrandoci che esiste una specificità di linguaggi e strumenti per il racconto ‘immersivo’ di personaggi ed eventi del mondo greco-romano e bizantino, il secondo accompagnandoci dalle ‘storie da museo’ create per gli oggetti del Museo archeologico nazionale delle Marche, all’archeologia raccontata dai video che narrano i risultati di scavo archeologico. Con Carolina Megale vedremo cosa accade quando la sguardo disincantato dell’archeologo professionista incontra la meraviglia entusiasta del dilettante volontario in un contesto che diventa di reciproco arricchimento. Se quest’impegno, come a Poggio del Molino (LI), prende la forma di un’esperienza di crowdfunding e crowdsourcing dove lo scavo contribuisce a narrare da sé le sue storie, allora siamo di fronte a qualcosa di davvero speciale.
Come lo siamo, infine, nel caso del Museo Salinas di Palermo, ormai un vero caso di studi e un’esperienza trainante nel settore. Lo sentiremo dalle parole del suo Direttore, Francesca Spatafora, che non è qui oggi ma ci ha voluto far avere un suo contributo, e dalla testimonianza di Sandro Garrubbo, responsabile delle strategie di comunicazione del Salinas: un museo archeologico dal grande passato che in un difficile presente è riuscito a riconquistarsi uno spazio e un suo vasto pubblico – di più, a costruirsi una comunità di riferimento – mentre era chiuso per restauro, grazie alla forza delle sue storie narrate sui social media.
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